La mostra antologica SFREGI di Nicola Samorì a Palazzo Fava di Bologna, palazzo storico decorato con i fregi dei Carracci e scuola, si colloca in un rapporto dialettico continuo e volutamente coinvolgente con gli affreschi antichi che culminano nella famosa Sala di Giasone.
“È pittura che guarda la pittura” afferma l’artista, proprio come fanno in modo programmatico tutte le figure dei suoi dipinti installati nella Sala, che guardano verso l’alto.
I quadri dell’artista si pongono in confronto con la tradizione pittorica, da quella cinquecentesca a quella ombrosa del barocco, fino ad arrivare al contemporaneo con il gusto per la materia di Burri e i tagli di Fontana. E ancora, l’artista ammette un debito nei confronti della sua terra romagnola: con la lucentezza disgregante dei mosaici di Ravenna e con la pittura fulminea di uno degli arcangeliani “Ultimi Naturalisti”, Mattia Moreni. Il confronto è insieme con i codici della pittura: in primis quello mimetico della tradizione occidentale e poi l’informale e l’astrazione del linguaggio contemporaneo. Infine l’epico confronto di Samorì è proprio con il medium della Pittura: i supporti diversi, il colore e la materia pittorica, gli impasti, le tecniche, la relazione con l’incisione. Si tratta di una ricerca a tutto campo sulla natura dell’immagine che coinvolge anche la scultura, quasi a volere completare un confronto continuo con i due media eccellenti della tradizione.
La mostra si apre in maniera programmatica con Pittura (2018) un quadro dove il volto ripreso da Simone Cantarini si raddoppia in un ovale volto-tavolozza: la pelle del “secondo” volto coincide con la pelle della pittura e affiora e fiorisce in un tripudio squillante di colori informi, che si oppongono alla coloritura liscia e bruna della tradizione. Di fronte al quadro, al centro dell’atrio e in opposizione con la scultura antica dell’Apollo, svetta la scultura On the tentacle, 2016, che rappresenta Marsia scuoiato, una figura topica per Samorì, visto che gli affreschi del Cammino Cannibale (2018-19) rappresentano Marsia nella sala di Ludovico Carracci e sono il risultato di sei strappi, che rendono evidente la stratificazione della pittura, le diverse pelli di cui è composta, fino ad arrivare in un percorso a ritroso al supporto finale, alla figura nel suo stato larvale e fantasmico. Di fatto al centro della pratica di Samorì sta proprio un lavoro operato sulla pelle stratificata della pittura, che subisce varie operazioni con diversi utensili utilizzati a seconda di ciò che suggerisce il contesto all’immaginazione dell’artista: il bulino per togliere fili di pittura che cadono inermi nello spazio A corde, 2019; la sgorbia per tormentare la superficie e creare contrasti tra finito e non finito, naturale e artificiale, forma e informe, Caino, 2020; le mani per togliere strati abbondanti di pittura affondando nella materia e arrivando persino al supporto About Africans (gli occhi nel petto), 2013; solventi per scorticare le pelli superficiali, L’illeso, 2014; trapani che creano fessure nei supporti Clessidra, 2020; giochi tra pieni e vuoti in cui il vuoto in realtà costituisce la figura attorno a cui l’artista lavora, Gennaro e Lucia, 2019 e 2020.
Lo stesso avviene con la scultura, dove l’artista scolpisce in maniera raffinatissima oppure usa la tecnica dello stampo e il collage di forme che fioriscono su se stesse, spesso incompiute, frammentarie, sofferenti. La forma nasce a volte a partire da un errore della materia, da un’imperfezione, che Samorì accoglie come luogo simbolico da cui partire per ricostruire l’idea di una figura o un oggetto che si appella al mito o al quotidiano immaginifico dell’artista, Ultimo Sangue, 2019.
Un prendersi cura della pittura come un medico di fronte ad un corpo, composto di un interno e di uno strato superficiale, è l’evidenza attorno a cui opera l’artista con lo sguardo e con le mani. Samorì altera il corpo finito della figura e della pittura che si abbandona al suo fare, iniziando un percorso di decostruzione fantastica attraverso cui la figura diventerà un ibrido, un incrocio di tempi e di codici indissolubili e trasfigurati. Concludiamo con tre esempi particolarmente significativi della pratica dell’artista.
Il primo è la santa di Immortale (2018) che ha la gola squarciata da un pennello vero, che coincide con lo squarcio profondo della carne della pittura che arriva alla tavola: una metafora in cui lo strumento del pittore è in grado di operare una profanazione dell’immagine. Il secondo è Anulante (2018), un olio su rame, dove Samorì squarcia come in un’operazione anatomica il tronco del personaggio e lo apre in due per mostrare la carne sanguinolenta e ribollente del corpo della pittura. Il terzo esempio è Lienzo (2014), olio su tavola. Anche qui l’artista ha costruito uno spessore scuro con un denso strato di olio sul quale ha dipinto con pennelli finissimi il corpo perfetto e classico del Cristo nel sudario da Philippe de Champaigne, ma poi ha tolto con una grande concentrazione la pelle superficiale della pittura, arrivando esattamente a metà del corpo diafano del Cristo: una coltre nera e profonda incombe sulla figura e la fa galleggiare per sempre nel tempo.
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