Musei chiusi, grandi e piccoli eventi espositivi rimandati, mercato dell’arte che, al pari di tutti gli altri, presto e conseguentemente subirà flessioni drammatiche. Tutta la filiera dell’arte produttiva e del relativo consumo spezzata, costretta ad assumere comportamenti e modalità, basati su isolamento e immobilità, profondamente antitetici alla sua stessa natura.
Il Covid-19 sarà neutralizzato, e in attesa che lo faccia la scienza sta a noi combatterlo cambiando il nostro modo di vivere e in parte, probabilmente, anche quello di essere. In ogni caso non c’è dubbio che questa distopica quanto realissima storia lascerà segni profondi e merita qualche riflessione non tanto su quello che eravamo e su quello che saremo, ma più semplicemente su quello che siamo.
L’artworld (A. C. Danto, 1964) è cresciuto con la globalizzazione, rappresentandone una delle tante costole. E se questa parola all’inizio indicava una condizione dell’arte intrinseca al proprio organizzarsi in un sistema nel quale i vari attori erano determinanti per il riconoscimento dell’opera d’arte, nel tempo è andata sempre più assumendo la definizione di uno stile di vita. L’artworld era del resto nato nell’epoca Pop, e il suo assumere man mano un senso di leggerezza e d’immedesimazione con il mondo che cambiava globalizzandosi non poteva che coincidere con un’idea dell’arte contemporanea, ma in fondo anche di quella antica, sempre più prossima alla sfera dell’intrattenimento. Un processo che ha trovato nuovo e diverso slancio – anche se non privo di contraddizioni piuttosto interessanti a causa, tra le altre cose, della natura materiale, oggettuale, dell’arte, anche quando si dà come pura immagine – con l’avvento del digitale, nel quale oggi l’arte per sopravvivere è costretta a trasferirsi per intero.
Certo, sembra nient’altro che la conseguenza logica, quanto a questo punto inevitabile, del compiersi della quarta rivoluzione, per dirla con Luciano Floridi.
I miei studenti dell’Accademia fanno spesso ricerche sull’avanzamento della comunicazione social dei musei, e anche sui modi e le forme che gli artisti adottano, non solo per diffondere il proprio lavoro sul Web, ma anche per sperimentarne la capacità di divenire linguaggio dell’arte attuale. Ricerche che dimostrano il peso sempre maggiore che hanno le ICT (Information and Communications Technology) nella nostra realtà analogicodigitale, nel nostro quotidiano lavorare, ivi compreso anche quello dell’arte.
Quindi questo passaggio, giocoforza temporaneo e radicale, non va certo drammatizzato.
Ma c’è un però, ed è relativo all’improvvisa perdita dell’analogico in quella dimensione “onlife”, sempre per citare Floridi, nella quale stavamo vivendo (e di certo torneremo a vivere) tenendo necessariamente insieme digitale e appunto analogico, l’immateriale della comunicazione e la materialità che siamo e nella quale esistiamo, quell’on-life che appunto descrive entrambe.
Nell’arte l’improvviso mancare della componente analogica, non solo, come dicevo, confligge con la sua natura materiale e oggettuale, tanto decisiva nella fase produttiva che in quella fruitiva, ma si allea dolorosamente a quella necessarietà dell’analogico verso la quale proviamo già in questi giorni nostalgia. E cioè verso quel nostro essere corpo tra corpi, che venendo privato della possibilità della relazione, dell’incontro, dello scambio fisico interpersonale, è mutilato di quella dimensione esistenziale ed espressiva che è tanto decisiva da aver meritato un proprio spazio di studio nella semiologia con la prossemica. L’arte, e la cultura tutta, è del tutto intrinseca a questa dimensione, ne è a volte il risultato e a volte la causa, giocando però sempre un ruolo decisivo nella determinazione di noi come dell’ambiente analogicodigitale.
La perdita della componente analogica nell’arte, ancorché temporanea, al pari della necessaria impossibilità di avere contatti ravvicinati tra tutti noi, sta tangibilmente dimostrando quanto l’onlife sia la necessaria coniugazione tra due parti, quella analogica e quella digitale, e quanto sia squilibrante una sospensione anche transitoria di questa condizione.
Questo è dunque quello che siamo, questo è l’ambiente nel quale viviamo e nel quale l’arte ha un posto che adesso percepiamo come leggermente differente dall’intrattenimento, ma appunto costitutivo non solo della nostra realtà ma prima di tutto del nostro essere.
Certo, non ci voleva un virus incoronato per farcelo capire e quindi non lo ringrazieremo per questo, come del resto per null’altro.
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