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La pittura come coscienza dell’illusione: intervista all’artista Dan Rees
Arte contemporanea
di Luca Vona
Per la sua sesta mostra alla T293 di Roma, intitolata Class Consciousness e vistabile fino al 17 aprile 2025, Dan Rees esplora le dinamiche di classe attraverso due progetti. I dipinti Artex, realizzati a olio, imitano un materiale da soffitto strutturato, popolare nelle case britanniche degli anni ’60 e ’70 ma considerato kitsch a partire dagli anni ’80. Il loro stile drammatico ed espressionista astratto critica le gerarchie artistiche, specie quando vengono appesi nelle case dei collezionisti: i motivi distintivi ritrovano la loro collocazione domestica, seppur in strati socio-economici molto diversi.
La seconda serie, impressioni, utilizza acrilico a rapida essiccazione applicato direttamente sui muri della galleria, privilegiando gesti spontanei rispetto alla tecnica. Questi murali evocano la serialità dell’arte concettuale e i test di Rorschach degli anni ’60, sfruttando forme ambigue per indagare percezioni inconsce e “l’illusione necessaria” alla base dell’arte e dell’economia. L’artista ci ha concesso un’ampia intervista per comprendere meglio il suo lavoro e le sue premesse concettuali.

Come ha avuto origine il tuo rapporto con la pittura e cosa ti ha avvicinato a questo mezzo?
«Ho studiato pittura al Camberwell College of Arts, ma durante il triennio si cerca soprattutto di distaccarsi dal mezzo e sperimentare. Già durante gli studi, ero attratto dalle pratiche dell’arte concettuale degli anni ’60 e ’70, e quell’interesse si è sviluppato al punto che, quando ho iniziato a realizzare mostre qualche anno dopo, pensavo quasi esclusivamente all’arte concettuale. All’epoca delle mie prime vere esposizioni, avevo un’opinione molto negativa della pittura, la consideravo un mezzo obsoleto. Solo dopo aver capito che il mio interesse per il concettualismo mi portava a esplorare inconsciamente diversi media ho ricominciato a riflettere sulla pittura. Così ho reintrodotto il colore nel mio lavoro, ma in modo molto libero, poiché non mi consideravo un pittore: era un approccio giocoso e senza costrizioni».

Potresti guidarci attraverso la genesi di un’opera nella tua pratica? Come si evolve un’idea fino alla sua forma finale?
«Passo molto tempo a pensare all’arte, osservarla e leggere teoria e filosofia. È una sorta di “ricerca” continua che avviene in sottofondo; leggo spesso Adorno e la Scuola di Francoforte. Sono anche molto interessato alla politica di sinistra, quindi questi temi coesistono e entrano nel lavoro in modi incontrollabili. Cerco di non essere didascalico nelle opere, preferisco creare in modo intuitivo. Seguo i miei interessi intellettuali con libertà, supponendo che si intrecceranno al lavoro anche se non sempre in modo evidente. Credo che i ricordi e le impressioni dell’infanzia influenzino la mia pratica tanto, se non di più, degli elementi che posso controllare.
Un altro aspetto cruciale è permettermi di annoiarmi e giocare in studio. Molti progetti sono nati per caso o in modo distratto: credevo di voler provare una cosa, ma ne emergeva un’altra. Nella mostra, le opere “impronta” sono nate tentando di “incollare” una tela al muro con il colore: quando l’ho staccata, è rimasta un’impronta, un “incidente”. L’uso di Artex è partito dopo un documentario su Frank Auerbach: il suo spesso strato di colore mi ha ricordato glassa o intonaco, come il soffitto di casa mia. Dopo l’idea iniziale, sviluppo il progetto con entusiasmo, approfondendo materiali e tecniche».

Nel tuo processo artistico, quanto è determinante la tecnica e come bilanci forma e concetto?
«Tecnica e materiali sono fondamentali: posso ossessionarmi sul tipo di lino, la marca del colore, la profondità dei telai o gli angoli arrotondati. Mi piace analizzare questi dettagli e capire cosa comunicano. Parte del piacere di creare è esplorare i materiali e il loro comportamento. Questo approccio, però, l’ho sviluppato col tempo: all’inizio ero quasi anti-tecnica, cercavo una “purezza concettuale”, evitando qualsiasi legame con l’artigianato o il gesto artistico. Ora dedico più spazio alla tecnica, e penso che questo segnerà il mio percorso futuro».

Con quali artisti, movimenti o contesti storici ti senti in dialogo, e come risuonano nel tuo lavoro?
«Come ho detto, i miei primi riferimenti erano artisti concettuali come Sol LeWitt, Douglas Huebler, On Kawara o Adrian Piper. Oggi penso più a un’attitudine che a un mezzo: ho dialoghi immaginari con Andrea Fraser, Isa Genzken, Tony Cokes. Esteticamente, amo lo stile cartoon di Philip Guston e Patrick Caulfield. Non vedo la pittura come una categoria separata: mi interessa l’arte in senso storico e concettuale, oltre i mezzi specifici. Artisti come Merlin Carpenter dimostrano come la pittura possa essere una pratica critica».

Qual è, secondo te, lo stato attuale della pittura oggi, e come il tuo lavoro contribuisce o sfida la sua evoluzione?
«Nell’era “dell’economia della conoscenza”, la pittura viene talvolta vista come un ritorno all’artigianato autentico, in contrasto con altri mezzi. Una visione che rifiuto: l’arte è sociale e storica. Non ho quasi nulla da dire sulla pittura di per sé: la penso in relazione alle idee e alla storia dell’arte. Chi la pratica oggi dovrebbe chiedersi: “come può la pittura giustificare la sua esistenza in modo critico?”».
