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La pittura non ha mai dimenticato Orfeo: intervista a Giorgio Griffa
Arte contemporanea
La storia e le vicende professionali del torinese Giorgio Griffa (1936) non possono non intrecciarsi con quelle della sua città, che è stata centrale nelle ricerche artistiche lungo tutto il Novecento. Allievo giovanissimo di Filippo Scroppo, che proveniva dalla scuola di Felice Casorati, ha esposto per la prima personale alla Galleria Martano nel 1968, negli stessi anni in cui veniva lanciato il gruppo dell’Arte povera. Fondamentali le relazioni intrecciate soprattutto con Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio e Giuseppe Penone, con cui ha condiviso riflessioni ed esperienze espositive, pur nella distanza delle rispettive pratiche artistiche.
In questo mese di settembre Griffa è protagonista di ben tre personali in tre diverse gallerie: a New York da Casey Kaplan (7 settembre – 28 ottobre), a Londra da Massimo De Carlo (7 settembre – 5 ottobre), e a Milano da MAAB Gallery (21 settembre – 17 novembre). Abbiamo intervistato l’artista per parlare di queste mostre e della sua avventura partita da lontano.
Maestro, il mese di settembre la vede protagonista di una personale nella galleria Massimo De Carlo a Londra e di un’altra da Casey Kaplan a New York. Che cosa presenta? Lavori nuovi o anche pezzi storici?
La mostra di Londra comprende opere degli anni ’90 appartenenti al ciclo Tre linee con arabesco. Contemporanea sarà una personale a New York, alla Galleria Casey Kaplan, con opere del ciclo Océanie, che nasce da una riflessione sulla Oceania di Matisse. Entrambe si inaugurano il 7 settembre.
Ci vuole illustrare questo ciclo Océanie? Qual è la relazione con l’Oceania di Matisse?
Ho dato a questo ciclo il titolo Océanie perché esso nasce da una riflessione sull’opera di Matisse Océanie La Mer, Océanie Le Ciel (1946).
Caduto il perfetto universo meccanico di Newton, Matisse rappresenta lo spazio occupandolo ritmicamente, un segno dopo l’altro, come camminare, un passo dopo l’altro.
Lascia del tutto il sistema prospettico. Nel nostro universo quantistico la vita è dappertutto, tutto nasce e muore, dall’infinitamente piccolo delle particelle (miliardesimi di miliardesimi di millimetro) all’infinitamente grande dell’universo (miliardi di anni luce), l’energia indeterminata costruisce le identità, i mondi, fiori, persone, alberi, sassi, acqua, aria, fuoco, stelle, galassie. Ogni identità vive e muore e quando muore ritorna alla energia primaria, immensa e ignota.
Ogni segno del pennello è una nuova identità di sua natura, non c’è bisogno che rappresenti altro da sé, dunque esso è insieme realtà e rappresentazione della realtà.
Realtà materiale sono i segni lasciati direttamente dal pennello, realtà immateriale, come il pensiero, sono i segni che emergono dalla pittura esterna ad essi.
Il processo di sintesi della sua pittura, che è compiutamente astratta, parte anche quindi dalla pittura di Matisse che era dirompente nella sua forte accentuazione coloristica e però (era) ancora legata alla rappresentazione di figura. Quali sono gli altri artisti che l’hanno influenzata, direttamente o indirettamente, o che quantomeno le hanno posto degli interrogativi, delle riflessioni da cui partire?
Io non faccio alcuna distinzione fra figurativo e astratto e sono convinto che la polemica nata dall’articolo di Togliatti del 1948 abbia fatto un gran male alla pittura ed ai pittori italiani, stornando l’attenzione da quanto stava accadendo.
Gli artisti dell’Arte Povera mi hanno influenzato accentuando l’attenzione sulla intelligenza della materia. La antica distinzione fra il mondo animato e inanimato persiste al livello della esperienza comune – una mucca partorisce, una pietra no – ma sul piano della nostra struttura conoscitiva la vita, l’intelligenza sono ormai dappertutto. Dunque, persiste la funzione delle arti figurative di portare il materiale inerte al mondo animato, ma il rapporto di dominazione della materia può divenire interazione con la sua intelligenza.
Circa Matisse e la sua influenza su tutta la mia pittura, aggiungerei che insieme al dripping di Pollock (1948) le sue carte ritagliate (1946) coincidono con la fine del colonialismo (indipendenza dell’India nel 1947), ed essi fanno pittura con strumenti che vengono rispettivamente dai nativi americani e dall’Oriente.
Le sue considerazioni sono molto interessanti perché mescolano riflessioni intellettuali, storia degli artisti e considerazioni su materiali e tecniche. Considerando oggi il suo percorso e la sua carriera d’artista che bilancio può tracciarne? Ha citato i Poveristi che comunque sono stati costituiti da subito in forma di gruppo, e tra l’altro con alcuni di loro condivide la città, Torino. È stata più dura per lei che invece non ha mai fatto parte di alcun gruppo? Sarebbe andata diversamente la sua storia se vi fosse stato incluso?
Il gruppo dell’Arte Povera ha avuto un successo rapido e molto vasto, e certamente sarebbe stato così anche per me se fossi stato inserito nel gruppo. Ma non potevo essere incluso perché sono un pittore tradizionale e, pur condividendo molti pensieri, la mia scommessa era di verificare la capacità della pittura di assorbire le modificazioni della conoscenza, come è avvenuto nei millenni precedenti. Aggiungo che, visti oggi, a mio parere Penone, Merz, Anselmo, Zorio, Kounellis, Pistoletto sono essenzialmente scultori eccellenti.
Io sono stato inserito nella Pittura Analitica e debbo ribadire che, pur nella vicinanza di cuore e cervello con pittori quali Verna, Battaglia, Olivieri, Guarnieri, non mi sono mai riconosciuto in una pittura di auto-analisi, perché a mio parere tutta la pittura, di tutti tempi e di tutti i luoghi, racconta se stessa e insieme racconta il mondo, racconta la cultura del suo tempo.
Dal mio punto di vista l’aspetto analitico non è una teoria ma piuttosto un semplice strumento di passaggio dalla dominazione della materia alla interazione con la sua intelligenza.
Ci parli dei suoi inizi: come ha cominciato il suo percorso d’artista? Quali sono state le prime mostre? C’è stato un momento preciso in cui ha capito di avercela fatta, di essere considerato tra gli artisti che incidono?
Iniziai a dipingere che ero bambino. I miei mi affidarono ad un pittore tradizionale il quale mi diede una preparazione coerente al suo pensiero: figura, paesaggio, fiori, nature morte. Poi la vicinanza dei giovani pittori torinesi, fra cui amo ricordare la amicizia con Aldo Mondino, mi aiutò a comprendere che si trattava di vivere il presente. Dopo la laurea in legge presi a lavorare a mezzo servizio nello studio legale di mio padre e mio fratello, potendo così dedicare alla pittura il tempo dovuto, tornai a scuola di pittura frequentando per alcuni anni l’atelier di Filippo Scroppo, e mi dedicai a cercare la mia strada, usando i mezzi che conoscevo. Dopo la Biennale del 1964, quella della Pop Art, lavorai ad oggettivare le immagini sino a quando esse cominciarono a sovrapporsi alla pittura e non mi restò che abbandonarle. Non si è trattato di una scelta teorica a favore dell’astrattismo, ma un risultato concreto del lavoro della mano. Riflettendo sui monocromi di Yves Klein decisi di fare alcuni monocromi senza terminarli, perché la vita nel frattempo è passata avanti, pensiero che viene dallo Zen. Di lì fu breve il passaggio alle strisce, alle linee, ad ogni tipo di segno. E così nel 1968, all’età di 32 anni, feci la prima mostra.
Raramente abbiamo letto negli ultimi tempi un libro sull’arte così denso come il suo Undici cicli di pittura, in cui si avventura in un viaggio introspettivo ispirato e lucidissimo sulla sua stessa opera. Un passaggio fondamentale mi pare quello in cui scrive: “Se mi chiedo cosa significano [i segni nudi], posso rispondere che significano il nulla per coloro che ritengono esista solo il visibile, significano simbolicamente il tutto per coloro che credono a una parte nascosta del mondo”. Possiamo azzardare che la sua opera insiste in direzione ostinata e contraria rispetto al materialismo in cui siamo ormai immersi (e da cui siamo travolti)?
In pieno clima materialista Kandinsky scrisse Lo Spirituale Nell’Arte. La pittura non ha mai dimenticato Orfeo.
Io appartengo alle generazioni che tentarono l’uscita dal positivismo, i figli dei fiori, la fuga mistica, o erotica, o drogata, in ogni caso non violenta (le Brigate Rosse sono successive), mentre da parte sua la scienza trovava, sulle orme del Principio di indeterminazione di Heisenberg, ben più solide strade per entrare nella inestricabile complessità del mondo. La illusione di conoscere tutto ha lasciato il posto alla consapevolezza che una porzione di ignoto è inevitabile, parte costitutiva della conoscenza. La perfezione meccanica dell’Universo di Newton ha lasciato il posto alla complessità vivente dell’Universo quantistico.
Anche il più piccolo segno del pennello è vita. Al suo interno gli elettroni assorbono i fotoni della luce esterna ed emettono nuovi fotoni che ci trasmettono la sua immagine. Esso è realtà e rappresentazione della realtà.
La pittura ha sempre fatto il conto con le conoscenze del suo tempo, in ogni luogo e in ogni epoca, si tratta soltanto di continuare quella strada, con la consapevolezza che non è più il caso di credere alle divinità egizie con le teste di animale anche se la loro straordinaria bellezza continua ad essere presente nel nostro tempo.
Il materialismo ha lasciato un dono estremamente importante, la capacità di confrontarci con la intelligenza della materia. Da qui parte il possibile superamento del principio di dominazione, divenuto pericoloso perché abbiamo mezzi distruttivi troppo potenti.
Così la pittura, come la poesia, ha ritrovato un’altra strada di esplorazione del mondo nascosto, uno spazio immenso ove si pensi che il novanta per cento dell’Universo è materia oscura e che la struttura del pensiero rimane ignota anche ora che sappiamo dei cento miliardi di neuroni del nostro cervello.
Tornando alle divinità egizie tengo a precisare che a mio parere esse sono realtà, realtà immateriale in quanto pensate, e non occorre andare a cercarle altrove. Se poi si ritiene probabile che il pensiero sia di per sé fuori delle coordinate di tempo e spazio, esse sono vive come è viva ogni opera d’arte. E qui si fa inestricabile meraviglia la contaminazione fra tempo e non tempo, luogo e non luogo, materiale e immateriale, spirito e materia.