La Quadriennale di Roma al tempo della pandemia conferma l’apertura del 29 ottobre 2020 e si presenta ufficialmente all’insegna di FUORI, titolo in caps lock di questa nuova edizione a cura di Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol. Più di 300 opere d’arte, in 4mila metri quadrati di spazi espositivi, 18 nuove produzioni e 43 artisti, di cui 19 donne, 17 uomini e 7 collettivi. Un budget di 1,8 milioni di euro. E una lista con i nomi degli artisti invitati sulla quale, nei mesi precedenti, non è trapelata nemmeno un’indiscrezione. Si tratta di Alessandro Agudio, Micol Assaël, Irma Blank, Monica Bonvicini, Benni Bosetto, Sylvano Bussotti, Chiara Camoni, Lisetta Carmi, Guglielmo Castelli, Giuseppe Chiari, Isabella Costabile, Giulia Crispiani, Cuoghi Corsello, DAAR – Alessandro Petti – Sandi Hilal, Tomaso De Luca, Caterina De Nicola, Bruna Esposito, Simone Forti, Anna Franceschini, Giuseppe Gabellone, Francesco Gennari, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Diego Gualandris, Petrit Halilaj and Alvaro Urbano, Norma Jeane, Luisa Lambri, Lorenza Longhi, Diego Marcon, Raffaela Naldi Rossano, Valerio Nicolai, Alessandro Pessoli, Amedeo Polazzo, Cloti Ricciardi, Michele Rizzo, Cinzia Ruggeri, Salvo, Lydia Silvestri, Romeo Castellucci – Socìetas, Davide Stucchi, TOMBOYS DON’T CRY, Maurizio Vetrugno, Nanda Vigo, Zapruder.
Ecco la nostra intervista FUORI dai denti a Sarah Cosulich.
Il suo ultimo incarico è stato alla direzione di una grande fiera d’arte come Artissima. Che cosa ha portato alla Quadriennale di questa esperienza?
«Artissima ha rimarcato la mia consapevolezza della specificità dei ruoli all’interno del mondo dell’arte e dell’importanza del rispetto per i diversi pubblici e contesti nello sviluppo di una visione. Mi ha insegnato a ragionare in modo sistemico a beneficio dell’arte e degli artisti».
La sua è una Quadriennale che nasce sotto il segno di una sfida (anche se il Presidente parla di impegno portato a termine). Però “sfida” è una parola che ricorda anche la “fiducia” che si intrattiene con se stessi e con l’avversario, che in questo caso è anche un mondo dal quale uscire “FUORI dalle restrizioni fisiche e mentali che abbiamo vissuto tutti in questo complesso anno 2020. La fiducia, in questo senso, sembra essere un sentimento ben fuori luogo in questo tempo… come si è ripercosso questo ultimo mezzo anno nella preparazione della kermesse?
«Sono una persona ottimista che tendenzialmente ha sempre fiducia negli altri. Le sfide per me sono quelle contro le avversità. Ce ne sono tante, ma i risultati e le soddisfazioni per ora sono migliaia di volte maggiori».
Il sopraggiungere della pandemia quale impatto ha avuto sui lavori, sui progetti da produrre ad hoc che avevate definito con gli artisti?
«Ha avuto un grande impatto soprattutto a livello di fatica e complessità organizzativa. Per me e per Stefano Collicelli Cagol – con cui curo questa mostra e ho condiviso questo triennio – ha significato lavorare con decine di collaboratori a distanza e moltiplicare i tempi di comunicazione; per gli artisti ha spesso reso difficile raggiungere lo studio e produrre le opere nei tempi; per la mostra ha implicato il dover ripensare gli spazi anche a livello tecnico viste le problematiche nuove legate all’impossibilità di interazione fisica con il pubblico, alla circolazione dell’aria, della luce, del suono, ecc. Purtroppo, per tutti questi motivi, abbiamo dovuto fare alcune modifiche ai progetti, ma nessuno di questi ha compromesso la completezza e la narrazione. Le parti performative ovviamente rimangono quelle più colpite, ma la mostra rimarrà “fisicamente” molto coinvolgente».
Qual è il ritratto dell’arte contemporanea italiana di oggi? Quali temi sentono più vicini i giovani artisti?
«L’incommensurabile è uno degli aspetti che insieme a Stefano abbiamo riconosciuto spesso nel lavoro dei giovani artisti. L’idea del mostruoso come monstrum, l’indicibile. Non una realtà diversa nella quale rifugiarsi, ma un mondo parallelo dove l’immaginario è sia arcaico che futurista, fa convivere tecnologia ed esoterismo, mescola le suggestioni del futuro con la consapevolezza del passato».
Nella sua attività di ricerca propedeutica alla scelta degli artisti da invitare, cosa l’ha sorpresa più positivamente e cosa più negativamente dell’arte contemporanea italiana?
«In Italia ci sono artisti bravi e ora c’è una generazione di giovani interessanti, curiosi, colti, con incredibili risorse e capacità di pensiero critico. Vengono da esperienze e da contesti completamente diversi e hanno molta tenacia nel portare avanti le loro “ossessioni” artistiche. Per me è stato emozionante conoscere e lavorare con molti giovani. L’aspetto negativo dell’arte italiana rimane la lamentela, una piaga latente del nostro sistema in cui maggiori energie sono investite nel criticare che nel fare. Mi emozionano gli artisti che mantengono una proiezione, un’intenzione, una follia; mi delude chi si rifugia nella negatività. Con il progetto complessivo di Quadriennale iniziato nel 2018 abbiamo voluto affrontare propositivamente i tanti problemi del nostro sistema – dalla mancanza di un dialogo interno in chiave internazionale alla mancanza di promozione degli artisti – con iniziative di scambio e formazione come i workshop di Q-Rated e di sostegno finanziario e comunicazione all’estero come il bando Q-International. Sono progetti che hanno portato risultati enormi in poco tempo, ma che dovrebbero essere inseriti in un progetto di regia complessiva a livello di Sistema Paese. Bisognerebbe promuovere un coordinamento generale anche con quei privati che fanno molto. E identificare nuovamente il senso della parola giovani, anche per dare la giusta dignità agli artisti mid-career».
Perché, a suo avviso, l’Italia ha una così alta concentrazione di artisti pionieri, che dopo decenni di ricerca di qualità rimangono sostanzialmente dimenticati, ai margini del sistema del contemporaneo nazionale, a partire da quello museale (mostre, acquisizioni, ecc.)?
«Il motivo di questa marginalità di fondamentali artisti pionieri è una delle tesi di questa mostra che curo con Stefano ed è stato centrale per la nostra ricerca. L’arte italiana, dagli anni Sessanta a oggi, si è definita soprattutto attraverso due principali correnti e momenti artistici che hanno raccolto il fare arte italiano e lo hanno così rappresentato all’estero: Arte Povera e Transavanguardia. Non è stato facile farsi spazio per chi lavorava ai margini e senza appartenenza a una categoria precisa. Ma il lavoro di alcuni rappresentanti di queste avanguardie è potente, anche grazie all’autonomia con cui hanno portato avanti i loro immaginari, spesso inclassificabili a livello di disciplina, di medium o di genere. Speriamo che si possa offrire a molti di questi artisti un nuovo sguardo, anche in relazione alla contemporaneità».
Simone Forti e Nanda Vigo, insieme a Luisa Lambri e Maurizio Vetrugno: avanguardie, generazioni quasi dimenticate e giovanissimi: come è uscita FUORI, con quali criteri è stata definita questa lista di 43 artisti così curiosa?
«Trovo fantastico l’aggettivo curioso, lo trovo un gran complimento. Sul dizionario i contrari di curioso sono indifferente, ordinario, banale… esattamente quello che questi artisti non sono».
Scorrendo la lista degli artisti da voi selezionati, salta subito agli occhi la scarsa partecipazione di artisti romani (forse 3 o 4 sono considerabili romani) e, soprattutto, di artisti da Roma in giù. Le vostre scelte sono geolocalizzate nella gran parte al nord Italia e oltre. Come mai?
«Prima di definire “scarsa” una quota cittadina, serve prima una definizione dell’obiettivo della Quadriennale in un’epoca come la nostra. Nel tempo della globalizzazione con una gran parte di artisti che si spostano all’estero, nel mezzo dei dibattiti de-coloniali, con artisti da tutto il mondo che vivono in Italia e che diventano italiani, definire con precisione una quota locale mi sembra paradossale. Certo che abbiamo incluso artisti romani (che per altro sono il 10% del totale, proprio come nella Quadriennale 2016), ma al di là della matematica, con Stefano ci è sembrato più interessante pensare alla romanità della Quadriennale anche in relazione alla storia dell’istituzione stessa. Per esempio partendo dal suo prezioso archivio, esplorato insieme allo storyteller toscano Luca Scarlini in una modalità fortemente innovativa. Oppure nello studio e contestualizzazione di ciò che è avvenuto storicamente e artisticamente dentro il Palazzo delle Esposizioni, attraverso alcune delle tematiche della mostra e attraverso l’aver commissionato il display all’architetto napoletano Alessandro Bava».
Quanti studio-visit avete svolto nel centro-sud?
«Mi stupisce questa domanda perché per chi ci ha seguito in questi tre anni di lavoro il percorso di avvicinamento alla mostra ha compreso come la strategia di ricerca ha seguito diverse strade. Non solo le studio-visit (che sono state tantissime anche al centro-sud), le visite a mostre ed archivi, incontri e discussioni, ma anche la modalità più democratica, inclusiva a approfondita dei workshop. Il progetto Q-Rated di formazione e mappatura dell’arte giovane italiana che abbiamo portato avanti per due anni – con un rilevante investimento economico, di tempo, di energie e di contatti internazionali – ci ha permesso di conoscere e approfondire gli artisti selezionati attraverso un bando. Questo includeva anche il punto di vista dei prestigiosi tutor e direttori di istituzioni coinvolti, che avevano così la possibilità di conoscere i nostri giovani accrescendone potenziali possibilità di visibilità future. Abbiamo ricevuto quasi 600 portfolio in 6 bandi, abbiamo lavorato con più di 100 giovani. Abbiamo creato un database sul nostro sito dove curatori italiani, stranieri e galleristi possono fare ricerca, scoprirli o approfondirli. Rispetto alle domande sui limiti dell’arte italiana questa è stata la risposta concreta di Quadriennale. Il creare una mappatura che può andare oltre la mostra, e portare agli artisti italiani delle opportunità anche in futuro».
Come aveva già dichiarato in precedenza, la vostra Quadriennale sarà una mostra curatoriale. Tramonta quindi l’idea storica di Quadriennale intesa come rassegna d’arte. Non pensa che questa vostra scelta snaturi la natura e la vocazione fondativa della manifestazione?
«La fondazione ha cambiato natura nel momento che nel 2017 ha lanciato un bando per la ricerca di un direttore artistico, al quale veniva richiesto un progetto di riposizionamento a livello internazionale dell’istituzione e una serie di attività costanti di avvicinamento al grande evento espositivo del 2020. La decisione della Quadriennale di rivoluzionare la formula ha messo le basi per una futura evoluzione dell’istituzione e un antidoto potente al suo problema identitario in un mondo in continua evoluzione. Tra Q-Rated e Q-International abbiamo lavorato con centinaia di artisti e li consideriamo parte del lavoro che ha portato alla mostra. Per me e per Stefano gli artisti di Quadriennale sono tutti quelli di Q-Rated e di Q-International, non soltanto i 43 in mostra. Dal dialogo con loro e con i curatori abbiamo tratto una linfa che ci ha permesso di affinare il senso stesso dell’esposizione e la riflessione su quale obiettivo essa dovesse rappresentare. Le rassegne non hanno grande impatto per gli artisti perché spesso si limitano a includere un lavoro soltanto. Oggi, se vogliamo far conoscere i nostri artisti, dobbiamo essere anche consapevoli che la selezione, per quanto difficile come lo è ogni scelta, è una responsabilità che dobbiamo prenderci. Così come dobbiamo saper lavorare a lungo termine con una visione. Anche alla luce delle problematiche del sistema dell’arte sappiamo che un grande salon dell’arte italiana oggi non potrebbe funzionare. Per sostenere il lavoro di un artista è necessario mostrare la sua ricerca e non solo un’opera».
In questa Quadriennale il mantra è FUORI. Eppure l’arte contemporanea italiana, dai cosiddetti pionieri (come li avete definiti) agli artisti mid-career fino agli emergenti, fatica sempre moltissimo a essere presente FUORI, vale a dire nelle grandi rassegne internazionali, mostre museali, fiere e gallerie. Basti considerare, a titolo di esempio, la tradizionale scarsa rappresentanza di artisti italiani alla mostra internazionale della Biennale di Venezia, dove spesso peraltro si tratta di artisti già trapassati oppure da tanti di quegli anni all’estero che si fa fatica a identificarli come italiani, se non per il loro passaporto. Perché l’arte contemporanea italiana, a suo avviso, ha così tanta difficoltà a internazionalizzarsi?
«Il sistema dell’arte italiano vive un momento difficile e lo sappiamo. Dalla diminuzione di fondi pubblici a musei e istituzioni, alle difficoltà delle gallerie commerciali fino alle regole fiscali non sempre in linea con quelle straniere. E ora anche la crisi sanitaria ed economica. Al tempo stesso crediamo che per affrontare questo limite, oggi si debba dare nuovo ossigeno pensando all’arte italiana anche in relazione a chi fa ricerca. In Italia esiste uno scollamento tra chi fa ricerca, chi produce opere d’arte e chi le fa circolare, scollamento al quale abbiamo voluto dare una prima risposta attraverso alla pubblicazione della mostra FUORI edita da Treccani, che appunto non sarà solo un catalogo, ma conterrà dei contributi e delle visioni di ricercatori e storici dell’arte.
A seguito dei tanti eventi che stanno avvenendo intorno a noi, a partire dalla cancel culture, oggi dobbiamo anche divenire consapevoli che a breve il domandarsi perché ci sono pochi artisti di un paese rispetto a un altro, rischia di divenire una domanda obsoleta. Stiamo vivendo un cambio di paradigma a livello globale. Per questo dobbiamo lavorare non solo nell’ottica di quota numerica, ma di responsabilità per consentire all’arte di qualità di essere riconosciuta».
Non manca a FUORI un approccio che si definisce femminile, femminista e gender fluid. A proposito del guardare FUORI, non è che questa volontà di superare sempre e comunque i confini determini un ennesimo binarismo di genere che nell’arte diventa quasi un manierismo?
«Ho avuto recentemente una bella conversazione con i miei figli e un gruppo di amici delle scuole medie che sostenevano che solo in noi adulti c’è la necessità di definire le persone a livello di genere con precisione. Purtroppo con le generazioni precedenti c’è ancora molto lavoro da fare rispetto al concetto di “confine”. Per quanto riguarda la mostra: abbasso il binarismo e viva le ricerche artistiche di qualità».
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Come vorrebbe che fosse ricordata questa sua Quadriennale?
«FUORI».
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