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La Quadriennale? È sul pezzo!
Arte contemporanea
In nemmeno due giorni la Quadriennale di Roma (preview 29 e 30 ottobre) si è già guadagnata buona fama. Come mai? Intanto perché, tra mille sforzi e spettri di annullamento, questa Quadriennale non solo c’è, ma si dispiega con autorevolezza in tutti gli spazi di Palazzo delle Esposizioni che da molti anni erano preclusi al pubblico.
Un bel risultato che racconta l’impegno, non solo curatoriale, ma direttivo e amministrativo dell’istituzione. Che questa coesione, lavorare per un obiettivo comune possa essere un esempio per l’Italia di oggi alle prese con l’emergenza che tutti conosciamo? Sarebbe una bella lezione impartita dall’arte.
Ma dette queste cose, che non sono rituali, ma doverose per un primo tentativo, a caldo, di lettura di questa Quadriennale, veniamo alla ciccia vera della faccenda.
La modalità operativa, quindi, la scelta curatoriale, ma direi anche critica, di come affrontare il lavoro. C’era stato annunciato un approccio intergenerazionale e la promessa è stata mantenuta. La trasversalità ha anzitutto il merito di farci conoscere (e riconoscere) giovani artisti, soprattutto italiani, tra gli altri: Valerio Nicolai, Amedeo Polazzo, Giulia Crispiani, Caterina De Nicola, Lorenza Longhi. Frutto dei tre anni di ricerche effettuate in tutta Italia, con studio visit, incontri con giovani curatori che segnalavano artisti e insomma uno scambio virtuoso che ha riservato buone sorprese. Ricordo, proprio un anno fa, un incontro casuale con Sarah Cosulich, direttrice artistica della Fondazione La Quadriennale, in cui mi raccontava la felice scoperta di un mondo poco o niente affatto conosciuto popolato da giovanissimi artisti, alcuni dei quali ora sono in mostra a Roma.
E poi, quando lo sguardo è sulle generazioni precedenti, a parte l’ormai celebrate Irma Blank e Nanda Vigo, artiste che fino a quando c’erano le fiere, si trovavano e anzi arricchivano gli stand – mi ricordo il bellissimo stand di Ca’ di Fra di due o tre anni fa ad Artisssima – emerge finalmente la capacità di andare oltre l’Arte Povera, che rimane a tutt’oggi l’unico fenomeno artistico italiano conosciuto all’estero, facendo vedere soprattutto artiste, come Cloti Ricciardi, (ingiustamente messa da parte da un po’ di anni), Lydia Silvestri (una vera scoperta) Lisetta Carmi (già molto più nota) o la sorprendente Cinzia Ruggeri che lavoravano ed erano brave anche quando l’Arte Povera si stendeva su tutte (o quasi) le pratiche artistiche, ricoprendole neanche fosse stato un Cretto di Burri.
Se dall’estero si potesse vedere questa Quadriennale – che conferma anche diverse presenze: Monica Bonvicini, Bruna Esposito, Norma Jean, Francesco Gennari e, dopo, Micol Assael (riuscitissimo il suo vis-à-vis con Irma Blank), Anna Franceschini, Diego Marcon, Guglielmo Castelli, Tomaso de Luca, Chiara Camoni (a proposito, perché di artisti ancora piuttosto giovani sono stati presi lavori vecchi? Questione di budget o scelte discutibilmente rétro?) – il pubblico straniero, che molto probabilmente mancherà, avrebbe uno spaccato, ovviamente autoriale, ma piuttosto vasto di che cos’è l’arte oggi in Italia.
Vecchie e nuove generazioni condividono un allestimento “pulito”, cioè, a mio parere, corretto, arioso che, anch’esso, parla di un lavoro fatto con serietà e impegno. Non una collettiva un po’ buttata lì, come spesso si vede.
Un mood molto diverso per esempio dall’ultima Quadriennale che, affidata a un gruppo di curatori, ognuno con il proprio spazio da gestire liberamente, era – diciamocelo – per lo più fracassona, espressione inutilmente liberatoria del concept del curatore, poco incline a presentare lo stato dell’arte di un certo Paese, in un certo momento storico. Un’idea, a mio parere, un po’ vecchia dell’arte contemporanea che, per essere tale, chissà perché deve essere chiassosa, sfrontatamente confusa, mix visionario di suggestioni e immagini proposte orizzontalmente, in maniera sincrona, al visitatore. Ma non tutti i curatori sono Harald Szeemann, o Hou Hanru della mostra sulla “Strada” del Maxxi o del padiglione “Zone of Urgency” della Biennale di Venezia del 2003, o Francesco Bonami, direttore artistico di quella stessa Biennale. Magari! E il risultato della mise en scene di curatori ben più modesti a volte è semplicemente irritante. Meglio, allora, un allestimento più freddo, ma ben fatto. Anche perché il tempo che viviamo non è quello del chiasso e di un’idea dell’arte allegramente confusa tipo happening. Non c’è nessuna festa da celebrare e non c‘è neanche la sfrontatezza dell’arte da esibire. Non lo fanno neanche artisti come Benni Bosetto o Cuoghi Corsello (altro repechage interessante) che, pure essendo molto più sofisticati di quello che sembrano, rilanciano spesso un’idea provocatoria dell’arte.
Le uniche tele che indulgono su questo registro sono le pitture un po’ psichedeliche di Diego Gualandris, uno dei più giovani presenti, che a mio parere risente dell’onda lunga gestuale, forte e apparentemente sgrammaticata che investe tanta pittura giovane di oggi. Ma, accanto a questo, c’è il caleidoscopio di emozioni stranianti di TOMBOYS DON’T CRY e ho trovato equilibrato anche il rapporto tra le opere stesse, con una presenza di video (che ormai tendono ad allungarsi sempre di più) qualificata. Molto buoni Zapruder e Gianikian e Ricci Lucchi.
Qualcuno, uscendo dalla preview ha commentato dicendo che i temi affrontati: gender, omosessualità, desiderio sono già superati. Può darsi. Dato l’accelerato deragliamento del nostro tempo verso altre emergenze (in un altro momento avrei speso un’altra parola: orizzonti). Ma mi sembra che finora nessuna manifestazione italiana si sia confronta con questi temi. Ricordo solo una bella mostra curata da Massimilano Gioni alla Triennale di Milano, qualche anno fa. E poi, cosa per me non da poco, non c’è catechesi. Non c’è, vale a dire, il tentativo di spiegarci e indottrinarci sull’atteggiamento politicamente corretto da assumere verso queste realtà, come invece purtroppo accade in altri luoghi, a cominciare dagli Stati Uniti.
Certo, in questa Quadriennale non c’è la blackness, non risuona niente di black lives matter, una riflessione cioè sui rapporti di potere tra neri e bianchi, artisti e non. Ma è nel nostro Paese che la blackness manca e, tra i giovani artisti reclutati, magari ci starebbe stata bene una come Binta Diaw, 23 anni, italiana ma nerissima. Forse Cosulich e Stefano Collicelli Cagol (prezioso curatore di questa XVII Quadriennale) non l’hanno incontrata. Peccato.
Infine, Il catalogo. Ricco, all’apparenza molto ben fatto (non ho ancora letto niente, ma penso che lo farò con gusto) che nelle pagine iniziali, riempite solo di foto senza dida o altri riferimenti, a mo’ di Toilet paper, danno subito la misura di che cosa vuole fare questa Quadriennale: stare sul pezzo.
Anzitutto dell’arte e dell’arte inscritta nel mondo. Sia questo carico di frastuono o di silenzio assordante come è oggi.
Se qualcuno crede che la Quadriennale sia occasione in cui trovare e conoscere i più interessanti artisti italiani, purtroppo semplicemente si sbaglia. Non commento sul perché ma non è così: nei migliori casi se ne trova qualcuno dei veri artisti davvero innovativi e interessanti ma puntualmente accompagnati da troppe scelte miopi, arretrate, banali e come sempre NON SI FA DAVVERO RICERCA ma si sguazza solo nei vari circoletti preferiti, NON DI CERCANO PROPOSTE DAVVERO ORIGINALI ma solo trovati e più o meno ad effetto (spesso scarso) e comunque quasi sempre facendo bene attenzione a non guardare oltre il proprio naso. Si, ci sono anche i cosiddetti giovani, ma molti tra questi sono nati vecchi e vuoti di ogni fuoco, già triti e senza l’ombra di un rischio nel loro lavoro che spesso ha la profondità di una tazzina di caffè. Non è questione di età anagrafica cari curatori e nemmeno di frequentare i circoletti dove voi già vi muovete! Si tratterebbe davvero di mettersi con serietà a cercare chi stia facendo le cose più importanti oggi e i nomi presenti in mostra per più del 60% sarebbero altri.
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