Parole e immagini evidenziano i propri processi unificativi come forme del pensiero in interdipendenza reciproca nel contesto riflessivo attuato intorno ad analogie, differenze, contraddizioni e affinità tra codici comunicativi.
La mostra “A Word that Troubles”, a cura di Gaia Bobò, presso la Gallery of Art della Temple University Rome, si confronta con il pensiero visivo che si avviluppa nell’intricato e complesso accento delle parole, attraverso le opere di otto artisti italiani e internazionali dal differente percorso poetico e generazionale: Alessia Armeni, Edoardo Aruta, Emanuele Becheri, Francesco Carone, Alessandra Draghi, Filipe Lippe, Agnieszka Mastalerz e Benyamin Zolfaghari.
Nella mostra immagine e lessico si relazionano in un equilibrio compositivo armonico o in un’aperta opposizione, in una contesa controbilanciata dalla forza cromatica, da un ironico scambio contenutistico e formale, attraverso una ricerca continua e non conclusa tra materia e concetto, formato e ricreato nello scambio dialettico che dà vita all’opera.
Enigmi da decifrare sulla scorta di evocazioni, ordinamenti segnici, rapporti comparativi tra sistemi iconici e linguistici nella loro articolata e distinta analisi cognitiva, si uniscono in una lettura percettiva e inconscia o ricostruttiva e sequenziale.
La realtà indagata nella sua interazione verbale e visuale è giocata su possibilità e apparenze, ridefinizioni, citazioni e improbabili realizzazioni come nell’opera Elephant in the Room di Edoardo Aruta in cui una locuzione aforistica, proverbiale nei paesi anglosassoni, è concretizzata nella straordinaria, quanto non negata, presenza del pachiderma all’interno della sala e contraddetta nel suo senso metaforico dall’interazione diretta e familiare tra l’elefante e il suo proprietario nella condivisione di un pasto quotidiano.
Parole e immagini si affidano le une alle altre, al contempo si sfidano e si traspongono vicendevolmente in costrutti enfatizzati nella loro distinta componente percettiva, o quasi irriconoscibili e celati nella sovrapposizione di un codice ad un altro come nell’opera Profil perdu di Alessia Armeni.
L’artista ritrae soggetti di schiena delineati da delicate sfumature tonali in cui impercettibili segni linguistici sono atti denominativi di scale cromatiche categorizzate in orizzonti memoriali personali. L’intensità coloristica diviene identità lemmatica che costituisce il soggetto rappresentato, ponendosi oltre lo stesso apparato descrittivo e ricollegandosi a classificazioni sensoriali percettive.
In (Untitled W.Y.) di Alessandra Draghi la composizione formale si nutre dei canoni rinascimentali, individuabili nelle strutture geometriche fondamentali di impianto rettangolare, in cui proporzione, valore prospettico e ritmo architettonico instaurano un colloquio ordinato nelle linee costruttive.
La bidimensionalità della rappresentazione cede il passo alla sua presenza spaziale, alla tridimensionalità accennata nel ricamo di lettere d’affezione, riservate ad un’introspezione contemplativa di opere dal fascino enigmatico e dalla luminosità geometrica: l’Annunciazione del Polittico di San’Antonio e dal Battesimo di Cristo di Piero della Francesca.
Filipe Lippe in Amor Fati impiega simultaneamente testo e immagine nella composizione dell’opera. Fotografie, memoria collettiva, storia e linguaggio in collisione e confronto evidenziano manipolazioni, elaborazioni e reiterazioni di un’esistenza fragile ed esasperata: i lirismi costruttivi e decostruttivi dell’artista sono composti in una ricerca verbovisiva, basata anche sulla valorizzazione del segno linguistico nella sua organizzazione formale e componente grafica che si pone in continuità o in contrappunto rispetto all’area visuale, separata ma congiunta allo scritto.
Nella mostra “A Word that Troubles” interrelazione tra parola e costrutto visivo veicolano continuità plurali che interrogano segno iconico ed espressione linguistica nella disamina di percorsi estetici, logiche e potenzialità delle funzioni cognitive e dei sistemi simbolici.
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