«Esiste una netta differenza tra la sabbia e l’acqua, anche se entrambe scorrono». Sono le prime parole di un aforisma più lungo del poeta giapponese Kobo Abe. Ci rammentano l’incredibile somiglianza tra i due elementi che compongono due forme, due dimensioni, le più ancestrali che ciascuno di noi conserva dentro di sé. La sabbia e l’acqua. La spiaggia e il mare. Entrambe scorrono, danzano insieme, si lasciano toccare ma senza mai farsi cogliere, catturare. Qualcosa di simile la si può provare davanti agli intensi e spaesanti lavori dell’artista tedesco Peter Böhnisch, ancora per alcuni giorni con la mostra “Infinitely close” – visitabile su appuntamento – negli eleganti spazi espositivi di Umberto Di Marino a via Monte di Dio, Napoli.
I primi minuti, estremamente intensi e “captivi”, vengono spesi per accogliere, decifrare il suo linguaggio visivo singolare e sorprendente. Dei veri e propri testi dotati di una grammatica aptica, potenti e misteriosi quanto la promessa di una traccia in Braille. È come mettere il piede tra le onde, sulla battigia, per la prima volta. Un’esperienza di scoperta, che ci spinge ad avvicinarci, a voler sentire, a voler toccare.
La sabbia ha così preso il posto del colore. La sabbia è il colore. «Il processo di apprendimento è una parte essenziale del mio lavoro, poiché è per me un’espressione diretta della vita, e l’arte a sua volta non è altro che la vita». Questa innovativa tecnica pittorica è nata a Giverny, piccola cittadina della Normandia che ospitò gli ultimi anni di Claude Monet. Un luogo incantato, ricoperto di colori, odori, piante, case da fiaba in cui l’artista sembra aver trovato una delle chiavi interpretative della propria ricerca visuale e interiore, umana e artistica.
Più che dipingere, più che disegnare, l’artista tedesco, nato nel 1977 a Waiblingen ma che vive e lavora a Berlino, sembra dunque intento a una forma di scrittura. I dipinti, inediti o realizzati appositamente per la mostra, riconducono infatti a una gestualità calligrafica, narrativa ed esperienziale.
Onde, abbracci, volti, fiamme, sonni, figure, pianeti. Testi complessi e articolati, immagini come racconti scritti sulla sabbia, promesse composte da pittogrammi e ideogrammi che rimandano ad altri significati, altri momenti, altri luoghi. E la semplicità del tratto, rarefatto e accennato, è il testo motore, la voce parlante con cui tutti noi possiamo ricordarci, immaginarci, sognarci.
«La sabbia, le sue fluide transizioni tra pittura e rilievo mi aprono alla contemplazione del tempo e dell’atemporalità». Proprio questo inchiostro naturale ci regala infatti l’ennesimo paradosso. Prodotta dell’erosione, dello scioglimento di rocce sedimentarie, dunque stadio ultimo, eterno, immutabile della materia, la sabbia è altresì simbolo di instabilità, di movimento, di ineffabilità dell’essere. Nessuna forma sembra in definitiva capace di raccontare con tale definizione, epica e scenografica, la natura ultima e sfuggente dell’essere umano.
Ma Böhnisch non sembra soffermarsi su questa sublimazione cromatica e corporea delle nostre esistenze. Il soggetto, i soggetti, i volti degli individui sembrano finalmente tornare all’involucro ecologico, a quegli elementi primordiali che sottolineano il passaggio da un universo centrato, antropico e indifferente a una madre terra che scorre, accoglie, vivifica.
«Nell’acqua si può nuotare mentre la sabbia imprigiona le persone e le uccide sotto il suo peso», conclude il poeta giapponese. Eppure è proprio in quel collasso, in quella “fenditura”, in quel vortice gorgheggiante che scorre e cinge i nostri corpi che l’artista tedesco scopre l’emozione dell’esplorazione. «È come immergersi nella Fossa delle Marianne e scoprire che è piena di vita».
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