Alla galleria L’Ariete di Bologna, due gruppi scultorei, uno minore e uno maggiore, immobili oltre la fissità propria dei materiali che li compongono, raffigurano dieci busti fanciulleschi disposti su strutture di cavalletti e tavole in legno bianco. Sono le riconoscibili creazioni di Paolo Migliazza (Catanzaro, 1988) che l’artista ha in parte realizzato per questa mostra, “Raduno”, a cura di Giorgia Bergantin, e in parte per la precedente “We are not superheroes”, allestita nei medesimi spazi nel 2018.
La padronanza nella resa plastica dell’anatomia dei corpi, espressa dallo scultore nel modellato, volge non verso una rappresentazione naturalistica dei soggetti, anzi li spoglia di precise caratterizzazioni fisionomiche rendendo questi giovinetti androgini di terre refrattarie, carbone e cemento come sospesi in un tempo e un luogo, o un gioco, remoti. Più prossimi alla dimensione del simbolo e del simulacro che al mondo fenomenico, gli idoli bambini di Paolo Migliazza ci sono insieme estranei e familiari, impressioni residuali di un’Aetas aurea — volendo qui espressamente citare, per più d’una affinità, l’omonima opera di Medardo Rosso — custodita al di là della cortina delle palpebre serrate, dermatica soglia rupestre ove proiettiamo di rimando le nostre sagome curiose e inquiete.
Da cosa nasce la scelta di rappresentare l’infanzia restituendone la dimensione tragica, fragile e giocosa, ma anche l’essenza della sua “alterità”?
«La scelta si muove su un binario che da un lato trova fondamento nella necessità di lavorare su un momento della vita che, in una certa misura, è uno snodo centrale dell’esistenza di tutti; dall’altro, segue la necessità di distaccarsi dallo studio formale dei modelli accademici. Con Giorgia Bergantin, fin dal titolo, abbiamo pensato di restituire un’immagine che potesse ricondurre lo spettatore a qualcosa di familiare, ma che allo stesso tempo contenesse in sé un cambio di paradigma tale da innescare riflessioni altre rispetto a ciò che ci si trova davanti».
Vi sono fonti visive particolari a cui attingi, siano esse la dimensione del ricordo o scene di vita quotidiana, per plasmare questi tuoi soggetti d’elezione?
«Il mio alfabeto visivo si nutre delle fonti più disparate, sicuramente i social costituisco un bacino non indifferente per raccogliere impressioni, a volte anche fugaci, che tendo a salvare e poi dimenticare nei miei archivi personali. Dimenticare è necessario per la mia prassi lavorativa, poiché solo in questo modo posso attivare un processo mnemonico tale da innescare la ricerca fisiognomica che porta alla modellazione dei miei soggetti».
Quali ragioni soggiacciono al trattamento fortemente espressivo, di derivazione romantica e informale, delle superfici scultoree, colture di fori e concrezioni di materia e pigmento?
«Personalmente non m’interessa l’immagine in quanto rappresentazione di un qualcosa di visibile, la Figura è piuttosto un pretesto, uno spazio nel quale mi sento al sicuro, da cui muovo per sperimentare il linguaggio della scultura e le sue potenzialità espressive. Da questo nasce la necessità di mostrare ciò che avviene durante il processo di realizzazione (i tagli dei tasselli che compongono il negativo, le creste della fuoriuscita del materiale, ecc.) poiché quello è il momento in cui l’opera vive e in cui si carica di senso».
Lungo il perimetro delle sale tre telette, di cui una ripiegata e le altre affisse ad aste lignee, ed una singola figura allestita a terra con sul petto una stella nera, sembrano introdurre ulteriori riflessioni, tecniche e spaziali, nell’architettura dell’installazione. Di cosa si tratta?
«Sono delle riflessioni che ho iniziato a compiere partendo dall’osservazione dello spazio di lavoro. In studio avvengono spesso delle “manifestazioni involontarie”, delle evoluzioni poetiche dettate dall’equivalenza del caso in accordo con il nostro fare. Gli elementi a cui ti riferisci nascono da questo. Nello specifico le tele o stoffe sono l’impronta e la sedimentazione dei materiali che utilizzo per realizzare le sculture e il risultato altro non è che ciò che spontaneamente rimane sulla superficie. L’idea di installarle nello spazio è nata dalla necessita di creare un’economia visiva e un dialogo con le sculture. A quel punto mi è sembrato naturale installarne alcune alle assi lignee. Mentre la scultura sistemata sul pavimento è il risultato di esperimenti che porto avanti oramai da diversi anni e consistono nell’applicare vecchie incisioni strappate e ricomposte in maniera del tutto casuale all’interno del calco».
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