Da molti anni conosco Loredana Longo. E ogni volta è un colpo allo stomaco. C’è bellezza nel suo lavoro: una bellezza che non seduce. Una bellezza autentica, scaturita dalla forza e dalla veridicità del suo sentire. Il progetto di Villa Rospigliosi di Prato, CROSSING THE LINE, a cura di Irene Biolchini, mette in campo opere e stilemi su cui Longo lavora da tempo, rinnovati e proposti in una luce nuova: la parola Victory, il pavimento sconnesso, i vetri infranti… sono contestualizzati in spazi che ne enfatizzano la potenza. A Villa Rospigliosi occupa spazi diversificati: interni e esterni nell’architettura composita della villa.
All’interno, nella prima sala (nello spazio espositivo un tempo annesso destinato alle macchine agricole) “galleggia” un instabile e sconnesso pavimento in cemento sostenuto da 240 colli di bottiglia rotti (Floor # 8. What wewalkon) a cui si affianca una flessibile scala in ascesa composta da frammenti in vetro (Stairway to the Heaven), paradigma di un cammino da compiere, senza garanzia di successo. Ovviamente i due lavori non sono praticabili e sono stati installati in loco, creando uno stretto rapporto tra le opere e i volumi dello spazio che le accoglie.
La luce della sala è bassa, le ombre divorano le pareti e ingigantiscono la potenza dei lavori. In una nicchia, posizionata in una delle pareti, due pugni in cemento reggono colli rotti di bottiglia a ricordarci i processi distruttivi di cui siamo artefici: non c’è dunque vittoria (Nessuno vincerà ma tutti ci feriremo). Nella sala a fianco su un muro “martoriato dal tempo”, è proiettato Victory. Quel che resta della vittoria è solo la sua forma sbiadita, un video ideato e montato dall’artista che scorre in loop. Si assiste a una partita di rugby fra due squadre giovanili della Benetton Rugby Treviso sul campo di gioco dello stadio Monigo e sul cui terreno compare l’enorme scritta Victory. Le due squadre under 18 giocano con l’obiettivo di distruggerla. È intuitiva qui la relazione tra sport e guerra in cui è centrale il concetto di forza con implicazioni talvolta violente. In tutta la mostra corre il binomio vittoria/sconfitta.
Nella grande sala successiva un’opera di grande impatto. La monumentale scritta Victory, lunga più di 9 metri, è stata realizzata con uno spesso tappeto erboso destinato anch’esso alla distruzione con la performance dell’artista eseguita durante l’inaugurazione (How to make my victory); una performance che la vede indossare scarpe chiodate da rugby con un inconsueto tacco 12, disegnate appositamente per questo progetto (Rugby high heels).
Per Longo nel rugby c’è un aspetto cerimoniale e con la stessa ritualità, sistematicamente, l’artista ha marciato su e giù calpestando la scritta fino a ferirla, abraderla e scomporla.
Il corpo come sempre apre e chiude i progetti di Loredana Longo, anche se talvolta è solo presenza potenziale, ma sempre abile nel sollecitare la capacità immaginativa del visitatore. Longo coinvolge: si entra di fatto col corpo e il suo sentire nelle sue performances, fino a trascinarsi dentro la materia di quel che rimane delle sue opere.
Il progetto si apre con due mani passando attraverso l’azione della forza impressa dal movimento dei piedi sul tappeto erboso e si chiude con un’altra mano in cemento e alghe che stringe una collana di lacerti di vetro disposti lungo il perimetro di una delle fontane della villa. Don’t cross the line è un lavoro che ribadisce la presenza di ostacoli, suggerisce l’idea del filo spinato e al contempo è un invito alla “disobbedienza personale e civile” per abbattere i confini non solo e non tanto geografici e sociali, ma prima di tutto intimi che vedono la paura e la sconfitta come presupposto per avanzare in modo diverso. Longo sospinge al limite l’idea di violenza e sconfitta da cui ripartire. Un’interrogazione costante e pressante che spinge avanti la presa di coscienza, lo spirito critico verso ciò che ci circonda e sta accadendo. Personalmente non leggo tanto e solo un messaggio dichiaratamente politico (che a volte nell’arte assume un sapore demagogico e didascalico), ma un portato “implicitamente sociale” e proprio per questo più potente lavorando sullo stato coscienziale di ognuno, cercando una “riforma civile” entro ognuno di noi. Non c’è pace risolutiva, ma un invito ad interrogarsi e a vivere la propria miseria e fragilità con consapevolezza per poi ripartire. Ho chiesto all’artista e alla curatrice le loro parole chiave su questo progetto. Longo risponde: taglio, instabilità, fluidità, fine, inizio e Biolchini replica: ferita, crescita, dramma, comunità, speranza. Loredana Longo non delude mai e ci regala la forza di guardare avanti.
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