La vita dolce. Si, dolce.
Negli occhi, nelle espressioni, nei lineamenti degli affetti. Come affetti, stretti, sono i modelli di Alex Katz: la moglie, il figlio, la nuora, e quegli altri, pochi, personaggi, che ha insistentemente ritratto. Come in un diario esposto “all’amore del gioco”, senza labirinti concettuali.
Nata da un’idea di Vittorio Sgarbi e curata da Denis Isaia, la mostra “La vita dolce” riporta Alex Katz in Trentino dopo oltre vent’anni dall’ultima mostra, grazie allo spunto di ampio respiro di Emilio Mazzoli e la presenza, nonché la collaborazione, di Monica De Cardenas, che rappresenta l’opera dell’artista in Italia e in Svizzera.
Non chiede affatto, come tutta la pittura di Katz, di essere interpretata. Non vuole essere ridotta a semplice contenuto, non vuole essere addomesticata. Vuole essere guardata come pura e intraducibile immediatezza ottica. Rivolgendosi alla vista, non per ciò che significano bensì per come appaiono, le opere pittoriche in mostra sollecitano la necessità di recuperare i nostri sensi, per meglio mettere a fuoco l’oggetto senza sovraccaricarlo. Anzi, andando oltre ogni contrapposizione di forma e contenuto, affinché si ravvivi la nostra sensibilità.
La vita dolce è una forma di conoscenza, niente affatto concettuale, bensì come esperienza attraverso cui ci appassioniamo a un soggetto, ai suoi gesti, a un paesaggio, alle sue specificità, liberi da qualunque giudizio. Perveniamo a essa solo attraverso l’emozione e il coinvolgimento, liberi dal giudizio: Ada, Ursula, Emma, Yvonne, Susanne, Jennifer, Zophia, Marisa, Rebecca, Kirsten … ognuna di loro, e come loro, tutti i personaggi di Katz, non vogliono fare la storia, non gli interessa. Semplicemente accrescono la nostra vitalità, e dunque la nostra energia. Sensitiva, immaginativa e intellettuale.
Ciò che la mostra rovetana ci presenta, con oltre trenta tele di grandi e grandissime dimensioni, sono una postura e un metodo, un atteggiamento verso noi e verso gli altri capace di svelare la relazione di ogni pensiero con il desiderio che lo sottende: una miracolosa trasparenza che non vuole proporre verità alcuna.
Iconograficamente riconoscibili, libere della schiavitù del significato, gratuite e indipendenti: le opere non sono più obbligate a fornire risposte né dogmatiche né assolute. Vanno guardate e accettate così come appaiono, eleganti, belle. In una parola, arte.
Se la costante del modo di dipingere di Alex Katz è la modalità percettiva, “tutto si collega a qualcosa che vedo e che inizio a rappresentare empiricamente”, il MART di Rovereto sa restituirci, trionfalmente, un ritorno alla percezione che è possibilità d’accesso al tessuto del mondo di cui il soggetto stesso è parte, tutt’uno con l’oggetto. In questo mondo, dove le persone e la natura sono immobili, dove i paesaggi e i ritratti – Song, Woods, Open closed open closed, per citarne alcuni in mostra – sono immagini in perpetuo movimento che trascina chi li guarda, la luce è lo strumento di vita.
Luce che scivola, luce che si dà per essere colta solo per pochi minuti, luce che ha portato Katz dentro se stesso e che lui si è tenuto stretto. Sono sensazioni ad alta velocità dove non c’è essere puro ma senso che traspare nell’interazione tra i corpi vissuti. Corpi che sono l’abbozzo provvisorio dell’essere totale.
In quest’istantanea senza precedenti di occasioni uniche, giocose, mai arrabbiate né uniformate, la vita dolce non coincide con la memoria, con la rappresentazione o con la sua definizione.
La vita dolce è apparizione.
Sentila, forte. Perché sentire è comunicazione vitale, tessuto intenzionale.
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