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Land art a Malibu: un segno che arriva all’orizzonte nell’opera di Lita Albuquerque
Arte contemporanea
Abbiamo bisogno di progetti maestosi, di installazioni in dialogo con l’ambiente, la natura ed i suoi elementi. Su questa scia alla fine di giugno è stata presentata da LAND Los Angeles Nomadic Division con la curatela di Ikram Lakhdhar: Malibu Line, che ha dato una nuova interazione del primo effimero lavoro in terra realizzato con i pigmenti della celebre artista californiana Lita Albuquerque. Malibu Line è stato un segno diretto sul territorio che collegava lo spettatore alla terra e all’orizzonte, creato originariamente nel 1978. In virtù di una leggera illusione ottica, la linea collegava spazialmente e simbolicamente la terra al cielo e il cielo all’orizzonte oceanico. L’opera d’arte ha segnato un punto di svolta nella pratica dell’artista. Invece di dipingere sulle superfici bidimensionali, Albuquerque ha iniziato a creare sulla terra, attirando l’attenzione dello spettatore con una potente relazione al di fuori di sé e con la terra. L’artista ambientale si racconta, svelandoci l’iconografia, la sua storia personale e i paesaggi emotivi che incarnano la sua mitologia.
Da dove viene l’idea di rivisitare “Malibu Line”?
«L’idea di rivisitare Malibu Line è venuta alla curatrice tunisina Ikram Lakhdhar, che era interessata a esporla nel modo in cui una curatrice lavora ad una mostra retrospettiva. Volevo che fosse fisico, ma non mi interessava nemmeno ricreare questo lavoro passato, ho detto che l’avrei fatto se avessimo potuto avere la controparte anche in Tunisia. Se potessimo basarci sul lavoro passato estendendo la linea al Mediterraneo, come se entrambe le linee, la linea Malibu del 2024 in California e la linea prevista a Sidi Bou Said nel 2025, si unissero attraverso oceani e continenti. Ancora una volta, è guardare l’Arte da una prospettiva cosmica, come se potessimo pensare alla Terra come una scultura nello spazio, come se qualche essere cosmico potesse prendere questa sfera (il nostro pianeta) e vedere una linea blu che attraversa i continenti e gli oceani. Potrebbe essere un modo per mostrare al cosmo il desiderio umano di connessione».
Puoi introdurre questo lavoro esplorandone la relazione con il corpo, con la terra e il cosmo?
«Posso provare a spiegare come Malibu Line esplori la relazione del corpo con la Terra e il Cosmo. Posso dire che l’idea mi è venuta mentre camminavo su un sentiero sinuoso di una montagna dove vivevo affacciata sull’oceano, dove si poteva vedere la curvatura della terra all’orizzonte del mare sottostante. È stato lì che ho realizzato che come essere eretto, stando verticalmente contro l’orizzonte del mare, come il mio corpo e l’orizzonte formavano una croce, il che mi ha fatto riflettere se è così che si formano i simboli. Mi sono chiesta come avvenisse l’interrelazione di un essere umano con l’ambiente, mentre stavo lì a guardare l’orizzonte e potevo guardare il cielo e pensare alla relazione del mio corpo con lo spazio attraverso questo intervento. È stata questa osservazione rudimentale che mi ha aiutato a creare Malibu Line nel 1978».
Usi il colore blu e il rosso, come nei tuoi dipinti a pigmenti. Perché?
«Il blu mi circondava da bambina, sono cresciuta nella prefettura francese della Tunisia, nel Nord Africa, negli anni Cinquanta. Vivevo in un convento cattolico affacciato sul blu del Mar Mediterraneo e sulle rovine cartaginesi sottostanti. Blu era anche il colore del manto della Vergine Maria nella Grotta del convento che tanto spesso visitavo per trovare conforto, con le braccia tese che reggevano il mantello blu oltremare tempestato di stelle. Blu è la famosa cittadina di Sid Bou Said dove tutti gli edifici sono imbiancati e le finestre e le porte sono di quel blu che vibra al mare sotto e al cielo sopra di noi. Il blu è anche l’aspetto del cielo prima del tramonto, con le stelle dorate che cadono fino all’orizzonte. In questo modo il Blu mi ha avvolta e cresciuta come una bambina, potevo cadere nel blu e sentirmi sicura, per questo penso al blu come spazio, come il mistero dello spazio, un obiettivo utopico che si tenta di raggiungere, perché pensiamo che prima o poi lo raggiungeremo. Come dice Goethe: “Ci piace guardare il blu – non perché ci impone, ma perché ci attira dietro a sé”. È questo concetto di colore come movimento, colore come desiderio, colore come azione creatrice come il desiderio di cadere nel blu che mi interessa, ed è anche un modo di unire la terra al cielo e allo spazio. Il rosso è l’energia che proviene dal centro della terra».
Nel 2012, hai ripensato al tuo lavoro del 1980 Spine of the Earth, un’iconica spirale rossa disegnata sul letto di un lago asciutto nel deserto del Mojave, realizzandolo nuovamente per l’iniziativa Pacific Standard Time di Getty. Me ne puoi parlare?
«L’originale Spine of the Earth è stato realizzato nel 1980. Seguirono altri miei lavori: Malibu Line (1978); Man and the Mountain no.1 (1978); Rock and Pigment installation (1978); Man and the Mountain no. 2 (1979); le opere erano gesti che indicavano qualcosa proprio al di fuori del pianeta (un orizzonte, un tramonto della luna, un cielo). Nel 2012, il Getty Museum mi ha chiesto di ricreare Spine of the Earth come parte del loro Pacific Standard Time Performance Festival. Questa volta, invece di trovarsi sui letti piatti e asciutti dei laghi del deserto del Mojave, il sito doveva essere in città, sul belvedere di The Baldwin Hills Scenic Overlook, famoso per i suoi 282 gradini che scendono da un punto alto e piatto verso l’altopiano».
Raccontaci di più.
«Era il luogo perfetto per re-immaginare Spine of The Earth. Invece di usare il pigmento per produrre i gesti, ho creato una performance con oltre duecento partecipanti che indossavano tute rosse che circondavano un paracadutista in una spirale, mentre atterrava dall’alto sulla cima piatta dell’altopiano, poi tutti i partecipanti in spirale camminavano all’unisono lungo le 282 scale ripide. Insieme i partecipanti formavano letteralmente una spina dorsale nella terra, vista da diverse parti della città. Entrambi i lavori riguardavano la prospettiva. Quello del 1980 doveva essere visto dall’alto, per poterlo vedere nella sua totalità, mentre quello reinventato nel 2012, ha spostato la sua prospettiva da bidimensionale a tridimensionale e ha coinvolto l’intero paesaggio».
Realizzerai entro la fine del 2025, un prolungamento di Malibu Line a Sidi Bou Said, un villaggio bianco e blu affacciato sul Mediterraneo, in Tunisia.
«La famiglia di mia madre è tunisina e sono cresciuta lì durante la mia infanzia. Mia madre, essendo una drammaturga e volendo scrivere per Hollywood, voleva tornare negli Stati Uniti dove aveva lavorato come reporter negli anni Trenta. Dopo sette anni, ha finalmente ottenuto il visto ed è tornata in California, con me e mio fratello. Avevo solo undici anni e non ero pronta a lasciare la Tunisia: la terra dove giocavo nel fango, con il vento, i colori che mi nutrivano, il sentimento della Terra stessa. Mi sentivo strappata alla mia terra natale, ed è quella sensazione di volere con tutta me stessa che fossi connessa alla terra, che mi ha fatto iniziare a lavorare direttamente sulla terra. Ikram, che conosceva la mia storia, vedeva Malibu Line come un pezzo di nostalgia per la Tunisia. Estendere la linea da Malibu alla Tunisia soddisfa quel desiderio in me, come se potessi raggiungerla. Posso avere quella connessione, diventa come se non fossi mai andata via, riaffermando anche come artista, come vedo il pianeta da una prospettiva globale. Stiamo pensando di realizzarla vicino a Cartagine, dove sono cresciuta, con la stessa prospettiva sul mare di Malibu Line, come se ogni linea si chiamasse a vicenda sugli oceani».