«Che so’ ste metafore?», diceva Massimo Troisi nel Postino. L’arte contemporanea è sostanzialmente un racconto. Di una storia, un’emozione, un’idea. Adopera materiali di ogni genere per veicolare qualcosa d’altro. Da quando ha smesso nell’800 di essere pura mimesi della natura, dando spazio alle emozioni, all’interiorità che può e deve essere comunicata, abbiamo assistito a infinite declinazioni del concetto di arte. Il vero tema, al netto di tutte le varianti possibili, è che sono veramente poche le occasioni in cui l’arte contemporanea è immediata e si comprende realmente. Il più delle volte, lo spettatore disattento resta fermo a contemplare la confezione, perdendosi il contenuto. Altre volte, tante per la verità, il contenuto nemmeno c’è.
Il problema di quando la percezione resta all’involucro, è che arriva a segno tutt’altro messaggio. Arriva un’altra storia, un altro racconto. Non tutti si sono in effetti resi conto che l’arte di Yayoi Kusama e dei suoi famosi Dots è in realtà uno strumento terapeutico che l’artista giapponese ha adoperato, negli anni, per cercare se non di guarire dalle sue patologie, almeno di alleviarle.
Questo gesto ripetitivo e infantile le ha permesso al meglio sopportare “il male di vivere” (banalizzo per concisione, spero non me ne vorranno gli psichiatri). La Kusama stessa ha dichiarato: «Soffrivo spesso di episodi di grave nevrosi. Dipingevo le tele e poi continuavo a dipingere sul tavolo, sul pavimento e infine sul mio stesso corpo. Mentre ripetevo questo processo più e più volte, le reti hanno cominciato a espandersi all’infinito. Mi sono dimenticata di me stessa mentre mi avvolgevano, aggrappandosi alle mie braccia, alle mie gambe e ai miei vestiti riempiendo l’intera stanza».
Ora, anche i più disattenti tra voi si saranno accorti che, in tutto il mondo (sia fisico che digitale), è stata lanciata la più imponente e pervasiva campagna di marketing mai fatta da Louis Vuitton proprio con le opere e con la poetica della celebre artista giapponese. Nuova campagna globale che coinvolge un’artista ultra novantenne (Yayoi Kusama è nata nel 1929) e i suoi Dots. Una donna che per scelta ha vissuto buona parte della sua vita in manicomio (dal 1977 è ospite fissa al Seiwa Hospital di Tokyo), che viene “scongelata” dalla maison e replicata con una serie di robot che la ritraggono 20 anni più giovane a far finta di dipingere le vetrine con automazioni dozzinali e pennello in mano. E ancora, come moderno King Kong aggrappata a palazzi parigini, sempre armata di pennello in mano, pronta a dosare litri di vernice colorata in piccoli puntini. Oppure in piazza: il chiosco di fiori adiacente a Via Bagutta a Milano è a pois. In piazza San Babila, tre imponenti sculture a forma di zucca realizzate in vetroresina sono posizionate sulle collinette verdi. Texture che vediamo adornare non solo l’esterno, ma anche tutti gli store del brand e, ça va sans dire, i prodotti del brand.
Al di là che abbia deciso lei, che sia effettivamente consapevole di intendere e di volere (su internet se ne dibatte da giorni senza aver trovato risposte), ne avevamo davvero bisogno? Chi si interessa di moda, chi compra quelle borse, è soddisfatto? Avvicina il pubblico all’arte? O questa operazione permette solo a una multinazionale di vendere più borse? La maison, nella home del sito ufficiale, scrive: «CREARE L’INFINITO: I MONDI DI LOUIS VUITTON E YAYOI KUSAMA: Per la seconda volta, Louis Vuitton ha invitato la celebre artista giapponese Yayoi Kusama a sviluppare una nuova collaborazione creativa che risveglia, evolve e amplia lo scambio artistico iniziato nel 2012. Il lancio della collezione viene celebrato con una campagna che ha come protagoniste top model di fama internazionale. UNA VITA DA VISIONARIA: Da umili origini nel Giappone rurale ad artista di fama internazionale, Kusama ha trasformato magicamente e con determinazione la propria vita, creando incanto con la forza della sua arte. Totalmente inclassificabile, è riconosciuta come l’artista femminile vivente più influente di oggi».
Personalmente, oltre che visionaria, avrei aggiunto malata, ma questi son punti di vista. Di una cosa siamo già certi: il significato più profondo dell’opera della Kusama, l’approccio terapeutico del suo gesto, la motivazione germinale della sua arte, sono completamente stati stravolti, travisati, o magari accidentalmente dimenticati. Non è la prima storia di artisti che collaborano con brand, accade da oltre cent’anni nel mondo del vino e l’abbiamo visto ripetersi per innumerevoli segmenti del commercio, dalle automobili alle tazze del caffè. Tutto però, questa volta, è diventato soltanto un pattern: infantile, semplice, e soprattutto senza contenuto. Identico al pubblico che lo esalta.
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