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L’Arte Povera diventa nomade e arriva in Sudafrica, al Wits Art Museum
Arte contemporanea
Un passo indietro nel tempo: il 27 settembre 1967 viene inaugurata presso la Galleria La Bertesca di Genova Arte Povera – Im Spazio, curata da Germano Celant. In aperto contrasto con l’arte della prima metà del Secolo Breve e in continuità con le tendenze informali del decennio, Celant identifica nella poetica di diversi artisti una ricerca che vuole evocare una nuova originarietà, che si manifesta «Nel togliere, eliminare, ridurre ai minimi termini, impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi». A distanza di 56 anni, il Consolato Generale d’Italia a Johannesburg ha inaugurato la mostra Arte Povera and South African Art: In conversation, presso il Wits Art Museum.
L’esposizione, che si è svolta dal 31 ottobre al 9 dicembre 2023, possiede una doppia natura. Da un lato, un excursus sull’Arte povera, Arte Povera 1967-1971, curato da Ilaria Bernardi, con la partecipazione di 13 artisti: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, e Gilberto Zorio. La seconda sezione, South African Innovations, 1980s – 2020s, curata da Thembinkosi Goniwe, si propone di marcare tendenze e rimandi ai poveristi nella produzione sudafricana grazie alla traccia di altrettanti artisti: Jane Alexander, Willem Boshoff, Bongiwe Dhlomo, Kay Hassan, David Thubu Koloane, Moshekwa Langa, Billy Mandindi, Senzeni Marasela, Kagiso Pat Mautloa, Thokozani Mthiyane, Lucas Seage, Usha Seejarim e Kemang Wa Lehulere.
L’arte, espressione dei paradigmi contemporanei, si pone come nuovo meccanismo di sviluppo di dialoghi e relazioni più o meno durature tra culture eterogenee e distanti. Bernardi crea un percorso filologico, capace di ricostruire una narrazione coerente dello sviluppo dell’Arte Povera. Osservando gli ambienti, la scena appare dominata dalla presenza ingombrate di Orchestra di stracci – Quartetto (1968) di Michelangelo Pistoletto affiancata a Senza titolo (porte) (1966) di Alighiero Boetti. La grande installazione di Pistoletto occupa quasi integralmente lo spazio centrale, monopolizzando la vista, mentre opere estremamente poetiche come Scarpette (1968) di Marisa Merz e Svolgere la propria pelle (1970-71) di Giuseppe Penone si diramano negli spazi laterali nella costruzione della sinfonia concettuale elaborata dall’Orchestra.
Gli artisti viaggiano nomadi tra i linguaggi per chiedersi quale sia, in fondo, l’obiettivo originario dell’arte. Approfondiscono l’essenza stessa del reale sviscerandone i retaggi atavici. Occludono lo spettatore indirizzandolo alla scoperta del mistero: si pongono come vere e proprie guide spirituali nel santuario stracolmo delle reliquie della nostra contemporaneità decadente. Eco di un canto denso di rimandi simbolici e filosofici, l’Arte Povera permette l’ingresso di materie così sottilmente complesse per costruire nuove narrazioni mitologiche in questa ibridazione culturale. Ne parliamo con la curatrice della mostra, Ilaria Bernardi.
Nel caso della mostra Arte Povera and South African Art: In Conversation, come può funzionare questo contrasto con l’arte sudafricana?
«Premetto, le due mostre erano comunque separate. Ciascuna singola sezione aveva un proprio titolo. L’idea è costruita, fondamentalmente, nell’ambiente per cui l’arte sudafricana strutturava un raccordo all’entrata e all’uscita della mostra. Non c’è stato un dialogo “diretto”, volontariamente, ma perché si è voluto proporre un dialogo tra le due Nazioni, il Sud Africa e l’Italia. Il dialogo è stato più “simbolico” che effettivo, strutturato per cercare di aprire un contatto con gli artisti locali. La circoscrizione temporale sicuramente ha facilitato. Si tratta di opere italiane di quegli anni specifici per dare più spazio temporale allo sviluppo dell’arte sudafricana».
Per quanto riguarda la scelta critica di concentrare la ricerca in quegli anni specifici, quasi “embrionali”, perché convogliare il fenomeno in questo periodo?
«Per due ragioni essenzialmente. Innanzitutto, perché mostre sull’Arte Povera, dal punto di vista onnicomprensivo, ce ne sono state, troppe forse. La più importante è stata sicuramente Arte Povera 2011, che è stata, oltretutto in più luoghi d’Italia, curata da Celant. Presentare in un paese che non aveva mai visto l’Arte Povera un’esposizione onnicomprensiva rischiava di non lasciar comprendere l’importanza del movimento, presentando un monolite sempre eterno, una certa pratica di colonizzazione. In seconda battuta per omaggiare Germano, visto che questa è stata la prima mostra sull’Arte Povera dopo la sua scomparsa, curata oltretutto da una donna. Germano ha sempre tenuto a ribadire che lui non ha inventato l’Arte Povera ma l’ha definita».
Secondo lei, è presente qualche rimando quasi atavico, una certa insofferenza, come nell’Arte Povera, verso una pittura più tradizionale o generi più canonici, nell’arte sudafricana?
«In Sudafrica, visitando gli studi degli artisti, si capisce come già la prospettiva sia radicalmente diversa. Intanto, anche artisti giovanissimi possiedono spazi di lavoro di grandi dimensioni, e questo implica la loro possibilità di concepire opere differenti. In Italia, la pittura è un qualcosa legata fondamentalmente all’Accademia, alla tradizione, così come la scultura. La cultura africana per tradizione è molto aperta all’accrochage, in qualche modo con altri materiali. E questo, li rende sottilmente affini all’Arte povera».
L’Arte povera appare come nomade sia geograficamente, sia dal punto di vista dei vari medium utilizzati. Visivamente, nell’esposizione, in che modo crede possa comunicare questo nomadismo?
«L’Arte Povera ha avuto il grande merito, grazie anche a Germano, di scegliere il nomadismo come pratica collettiva. Il nomadismo è sia politico – il non vedere i confini, un tema molto attuale oggi – che spaziale. Oggi l’Arte Povera può comunicare tanto proprio perché implicitamente ha sempre negato barriere, confini nazionali, imponendosi nel panorama globale grazie a questa sua capacità di adattarsi, di viaggiare. Questi artisti hanno viaggiato, hanno esposto in Italia e all’estero e hanno dialogato con i loro coetanei stranieri».
Già l’Arte Povera forse non intuiva la distruzione completa dei confini della nostra contemporaneità come fosse una necessità del presente?
«Collocandola nel 1968 si capisce che è stato il primo movimento che ha superato le barriere, si è diffuso in tutto l’occidente e quindi la gioventù si è ritrovata a lottare in paesi diversi per le stesse cose. La differenza che c’è tra l’oggi e il periodo dell’Arte Povera è questo: c’era un concetto di gruppo che oggi è impossibile proprio perché l’ideale e la collettività oggi sono mutati in non ideale».