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Le “astratte” in mostra a Como: intervista con Elena Di Raddo
Arte contemporanea
A lungo trascurate o dimenticate — come spesso accade per la cosiddetta altra metà dell’arte, con riscoperte e riconoscimenti tardivi —, le protagoniste dell’astrazione italiana hanno oggi la visibilità che meritano. Succede a Como, a Villa Olmo, dove, partendo dalle esperienze di alcune artiste comasche, Elena Di Raddo, professoressa all’Università Cattolica di Milano e parte del comitato scientifico del Centro di Ricerca sull’Arte Astratta in Italia, ha “inscenato” una ricognizione a tutto campo, dall’astrazione geometrica all’informale, dalla pittura analitica all’astrazione post-pittorica. Tutto questo con lo sguardo rivolto al femminile, con rigore e con una prospettiva storiografica, suddividendo la mostra in aree tematiche: Pioniere, Segno/Scrittura, Geometrie, Materia, Meditazione/Concetto, Corpo/Azione/Re-Azione e Spazio/Luce. Abbiamo parlato a lungo con la curatrice che ci ha raccontato la genesi di quest’ampia ricognizione, le esperienze storiche degli anni Trenta a partire dal territorio comasco in rapporto con l’ambiente milanese, i criteri che ha utilizzato per la scelta delle artiste e l’eredità che queste protagoniste hanno lasciato. E alla domanda su cosa abbiano in comune le pioniere degli anni Trenta e Quaranta con le artiste contemporanee che ha scelto per la mostra ci ha detto: “La volontà di perseguire liberamente e senza freni inibitori i propri sogni o come diceva Kandinski la propria necessità interiore”.
Qual è stato il punto di partenza nell’organizzare quest’ampia “ricognizione” sull’arte astratta al femminile? Le esperienze storiche sul territorio comasco? Penso alle artiste Carla Prina e Carla Badiali.
L’idea di organizzare una mostra dedicata all’astrazione delle donne partendo da quelle che hanno operato nel territorio comasco è nata in occasione della mia presentazione di queste artiste – Badiali, Prina, ma anche Cordelia Cattaneo — al convegno svoltosi lo scorso anno al Centre Pompidou di Parigi durante la mostra Elles font l’abstraction. Le “nostre artiste” erano, per il pubblico internazionale che seguiva il convegno, praticamente sconosciute e hanno destato grande interesse. Ho quindi immaginato una mostra che non solo facesse conoscere meglio al pubblico quelle artiste, attraverso la presentazione di opere in gran parte poco conosciute e di periodi differenti, ma ne dimostrasse l’originalità nella ricerca artistica italiana. Accanto alle comasche, ci sono anche due artiste futuriste, Regina Bracco e Giannina Censi, legate a Como da episodi espositivi e dalla frequentazione degli ambenti culturali animati da Filippo Tommaso Marinetti, che si distinguono per l’originalità e la modernità della loro ricerca. Regina scelse di usare l’alluminio per fare le sue sculture, un materiale moderno che ricorda le fusoliere degli aerei. Tornano a Villa Olmo dopo 86 anni alcuni bozzetti dalle forme molto vicine all’astrazione presentati nella stessa sede in occasione della Mostra di Scenografia Cinematografica del 1936. Mentre la Censi, che ha interpretato il dinamismo futurista nelle danze euritmiche e aereodinamiche, rinnovando la danza moderna, ha esordito proprio al teatro Licinium di Erba, progettato da Giuseppe Terragni. Il suo lavoro si lega strettamente alle teorie di Kandinskij sul rapporto tra danza e astrazione teorizzato in Punto, linea e superficie.
Quanto ha influito la presenza a Como dell’architetto razionalista Giuseppe Terragni che aveva intorno a sé un circolo di artisti che dialogava col gruppo milanese del Milione?
La città di Como ha avuto un passato di grande importanza culturale grazie innanzitutto alla sua presenza. Terragni è stato un modello per i pittori e gli scultori comaschi. Luciano Caramel, che ha dedicato molti studi all’astrazione comasca, sostiene che le prime prove astratte di Mario Radice siano state realizzate proprio tra il 1934 e il 1936 nel momento in cui gli furono commissionate dall’architetto le decorazioni per la Casa del Fascio. Negli stessi anni anche Manlio Rho ha abbandonato la figurazione per l’astrazione. In realtà, e la mostra lo mette in luce nel suo incipit, forse fu invece Carla Badiali ad affrontare per prima l’astrazione a Como in alcuni bozzetti datati attorno al 1932 per la realizzazione di un pannello decorativo all’interno del Circolo della Vela. Il legame tra pittura e architettura è molto stretto nella città attorno agli anni Trenta e Quaranta e i pittori mostrano nel loro linguaggio astratto una spazialità che tiene certamente conto degli elementi strutturali delle architetture razionaliste, di Terragni, ma anche di Cesare Cattaneo, Pietro Lingeri e Alberto Sartoris, anch’essi coinvolti nel gruppo di pittori e scultori che ebbe poi la sua concretizzazione ufficiale nella firma del Manifesto del gruppo primordiali futuristi Sant’Elia del 1941, promosso dal filosofo Franco Ciliberti e dal poeta Filippo Tommaso Marinetti. Un singolare e interessante connubio tra futurismo e astrazione.
Che criteri hai utilizzato per la scelta delle artiste, considerando che si va dagli anni Trenta al 2000? Hai deciso, ad esempio, di suddividere la mostra in sezioni.
Sì, questo è stato il criterio. Partendo dalle figure delle “pioniere” ho cercato di individuare l’eredità di quelle artiste negli anni a seguire, indagando alcune direzioni della ricerca astratta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si parte con il “segno” del periodo informale di Carla Accardi, che individua un linguaggio del tutto personale, un alfabeto inventato, come avviene anche in altre artiste degli anni seguenti come Betty Danon per la musica e Irma Blank per la scrittura. Seguono poi le artiste della geometria, anzi delle geometrie, la cui ricerca è strettamente legata al numero e alla forma nelle sue combinazioni formali e coloristiche. Vi sono poi le artiste che puntano l’attenzione sulla materia, sia nella scultura, che si serve di materiali industriali, di recupero o tessili, sia nella pittura. Una sezione specifica è poi dedicata all’ “uso” concettuale dell’astrazione, meditando e reinterpretando, in una logica di postproduzione, l’arte astratta delle avanguardie e le architetture. Seguono le artiste che si servono del corpo come misura dell’opera stessa, instaurando una sorta di ritualità performativa nella realizzazione stessa dell’opera e infine le ricerche che pongono in primo piano lo spazio, sia nel colore monocromo che nella dimensione della luce.
Quali sono secondo te storicamente, tra le opere che hai incluso, quelle più concettualmente significative e, per il loro tempo, “innovative”?
Tra le opere più innovative, oltre a quelle già citate di Regina, ci sono quelle di artiste come Dadamaino, Grazia Varisco e Nanda Vigo che indagano in strutture modulari e oggetti cinetico-progettuali la percezione dell’opera da parte dell’osservatore. Si tratta di lavori che rispecchiano le conquiste tecnologiche degli anni Sessanta e il fascino per i nuovi studi sulla percezione. Attualizzando questo tema si potrebbe dire che questi lavori anticipano l’interesse odierno per le ricerche neuroscientifiche.
Che eredità hanno lasciato queste artiste?
Queste artiste hanno dimostrato che non esistono ostacoli, neppure l’essere donna in epoche dominate dal maschilismo, se si vuole seguire la propria vocazione. Forse tali ostacoli le hanno portate addirittura a sperimentare linguaggi nuovi per l’arte, proprio cercando territori “vergini” non ancora dominati storicamente dagli artisti uomini.
Alcune delle artiste in mostra sono state recentemente riscoperte, anche dal mercato. Penso a Irma Blank. Altre sono riuscite ad avere riconoscimenti e a imporsi, sempre di recente, sia a livello nazionale che, alcune, nel panorama internazionale. Penso a Carol Rama, Maria Lai o Mirella Bentivoglio.
Passi significativi sono stati fatti anche in questo ambito, seppur ancora permanga in alcuni collezionisti un certo pregiudizio nell’acquisto di opere realizzate da donne. In un articolo del 2019 The Economist riportava i dati di una ricerca effettuata da quattro ricercatori di diverse università internazionali che dimostrava come le opere create da artiste siano vendute nelle aste a un prezzo inferiore rispetto alle opere di artisti, sostenendo che questo non sia dovuto né al talento né alle scelte tematiche, ma al semplice fatto che sono donne.
Nell’epoca della fluidità di genere e della scevà, o schwa, simbolo (ə) che tra l’altro si trova da tempo nell’alfabeto fonetico internazionale, l’altra metà dell’arte non è, ormai, una “formula” anacronistica?
Certamente sì, soprattutto nel mondo occidentale. Non è così però in tutte le parti del mondo purtroppo. Al giorno d’oggi può infatti non avere senso, o comunque non risultare un’operazione in sé interessante, un’esposizione esclusivamente destinata ad artiste, poiché le donne hanno acquistato uno status, una posizione, assolutamente paritari rispetto agli artisti. La mostra si colloca però apertamente in una prospettiva storica, o meglio storiografica, che consenta di riscoprire e di riproporre al pubblico accanto a figure accreditate e ormai riconosciute dalla critica anche figure rimaste (ingiustamente) per molto tempo in ombra, o comunque artiste alle quali ancora non è stata attribuita la giusta attenzione. Alcuni nomi in mostra risultano anche per gli addetti ai lavori quasi, se non del tutto, sconosciuti. E sono una piacevole sorpresa! Questa prospettiva critica conferisce un significato al taglio al femminile della mostra. Volgendo il nostro sguardo al passato, non possiamo non pensare alle numerose autrici che, anche in Italia, hanno condotto le loro pratiche con esplicito interesse verso la denuncia della situazione femminile, alla ricerca di una genuina e nuova individualità. Negli anni Settanta, il femminismo della differenza, teorizzato da Carla Lonzi, ha diffuso una chiara coscienza intorno alla condizione, esistenziale prima che sociale, della donna, aiutando le artiste ad assumere una piena consapevolezza del proprio ruolo nel mondo della cultura e dell’arte, portandole a raggiungere un pieno riconoscimento. Ma ancora oggi è anche importante, e significativo, ricostruire una vera narrazione dell’arte, mettendo in luce l’attività di tutte le sue protagoniste, prime attrici e comprimarie, dando la giusta considerazione alle artiste che hanno lavorato, che hanno coerentemente e strenuamente condotto le loro ricerche, affrontando dubbi e difficoltà molto più dei loro colleghi, pur senza mai riferirsi esplicitamente, o anche solo implicitamente, alla lotta e alle rivendicazioni femministe, o a tematiche legate alla ricerca di una autentica individualità femminile.
Quale il punto di arrivo della mostra? Le artiste delle ultime generazioni?
La mostra si ferma alla fine del XX secolo con i lavori di artiste come Luisa Lambri, Maria Morganti, Alice Cattaneo ed Elisabetta di Maggio che interpretano l’astrazione con una certa propensione concettuale e soprattutto con linguaggi che rinnovano quelli del passato, dalla pittura alla fotografia, alla scultura. Sono artiste che hanno cominciato a lavorare negli anni Novanta, a distanza di più di dieci anni dalla storica mostra di Lea Vergine L’altra metà dell’avanguardia, quando la questione di genere risulta essere, almeno in occidente, oramai superata, anche proprio grazie alle artiste dei due decenni precedenti.
Cosa hanno in comune le pioniere degli anni Trenta e Quaranta con le artiste contemporanee che hai scelto?
La volontà di perseguire liberamente e senza freni inibitori i propri sogni o come diceva Kandinski la propria “necessità interiore”.
Curata da Elena Di Raddo, la mostra ASTRATTE. Donne e astrazione in Italia 1930-2000 si tiene a Villa Olmo a Como dal 19 marzo al 29 maggio 2022.