Le dita sono maestre: intervista a Ernesto Neto

di - 9 Giugno 2021

Nato a Rio de Janeiro nel 1964, Ernesto Neto studia scultura alla Escola de Artes Visuais do Parque Lage e viene influenzato dagli artisti José Resende (1945) e Tunga (1952). Dalla seconda metà degli anni ’90 Neto inizia a realizzare le sue celebri sculture di tessuto e elementi naturali, spezie ed essenze; ambienti penetrabili dal pubblico che lo rendono uno degli artisti più riconosciuti a livello internazionale. Lo abbiamo incontrato in occasione della sua mostra per la Sala delle Capriate di Bergamo, a cura di Lorenzo Giusti.

Prima di tutto vorrei iniziare chiedendoti come stai vivendo questo tuo ritorno in Italia, dopo la tua partecipazione alla Biennale di Venezia del 2001.
«Adoro l’Italia e, in verità, vi sono stato diverse volte dopo la Biennale di Venezia del 2001. Ho fatto una mostra al MACRO e alla Fondazione VOLUME! a Roma nel 2008, e alla Galleria Cortona (Ambasciata del Brasile, Palazzo Doria Pamphilj, ndr) nel 2013. Furono lavori molto speciali, oltre alla partecipazione in alcune collettive, e alla Biennale di Venezia nuovamente nel 2017».

Hai sempre lavorato utilizzando materiali naturali, creando ambienti dove gli spettatori possono riposarsi, rilassarsi: potremmo dire che la presenza umana completa le tue opere. Quest’anno e mezzo non è stato facile, parlando di relazioni umane che sono state distanziate, chiuse… Estendendo il discorso hai visto un cambiamento nel modo del pubblico di avvicinarsi alla tua opera, negli ultimi vent’anni?
«Questa è una domanda molto interessante, forse potremmo analizzare l’evoluzione della società partendo da questo punto di vista, dal momento che ho sempre pensato che la relazione con l’opera mostri un po’ della psiche di ogni individuo. Tuttavia, ci sono così tante variabili che è difficile fare questo tipo di valutazione temporale, e io non mi sono mai fermato a pensarci, visto che vivo sempre il presente. Le variabili sono però importanti: una mostra in galleria è sempre molto diversa da una mostra dentro a un’istituzione, e tra le istituzioni, soprattutto, c’è una grande differenza di pubblico, quantità e qualità. Inoltre, ci sono le varianti culturali dei Paesi: esporre la stessa opera a Londra, Tokyo o Rio de Janeiro è molto diverso, e il pubblico si manifesta di volta in volta in maniera differente nonostante le similitudini. Curioso il fatto che cerchiamo sempre di vedere più le differenze che le somiglianze! Il mio lavoro si muove con l’intento di unire le somiglianze tra le persone».

La cover di exibart 112, un disegno inedito di Ernesto Neto

Ci puoi raccontare come é nato il progetto “Mentre la vita ci respira, SoPolpoVit’EreticoLe” per il Palazzo della Ragione di Bergamo?
«Quando ho iniziato a “sentire” lo spazio stavo leggendo un libro, Calibano e la strega di Silvia Federici – per coincidenza italiana – sul processo di disillusione della società europea, cominciato con la fine delle terre comunali, il controllo del corpo e la repressione del femminile. All’inizio del libro l’autrice parla delle persecuzioni agli eretici come l’origine di questo movimento in nome del progresso. Tempo dopo ho letto un libro di uno scrittore brasiliano, Pindorama revisitada di Nicolau Sevcenko. Parlando del filosofo mistico Gioacchino di Fiore, l’autore spiega la sua visione del Cristianesimo antico come quello del “Padre”, di quello Medioevale come del “Figlio”, e di quello dell’epoca che stava arrivando come dello “Spirito Santo”, dove tutti sarebbero stati liberi, senza ricchi né poveri. Sevcenko descrive quest’epoca come un’Epifania, che si diffuse per tutta Europa come un “fuoco nella paglia”, generando varie sette eretiche. A partire da qui non so cosa sia successo, ma dopo aver visto le foto della Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione, mentre ero nel mio letto con gli occhi chiusi, vicino al cuscino, con il mio corpo contorto, un giorno dopo l’altro ho iniziato a vedere pietra e paglia. Come se fosse una danza, il mio sguardo-corpo si è incollato a questo incontro della pietra, già in forma di parallelepipedo, con la paglia; pietra che prendiamo dalla terra, paglia che ci scalda, accoglie, alimenta. Non so come sia avvenuta la magia, ma il lavoro si era configurato, auto-sognandosi. Sai com’è: noi iniziamo, riceviamo e passiamo, il corpo dell’artista è una specie di mediatore. Ah, e poi c’è stato anche il coronavirus, questo essere eretico, questa bestia viva-non-viva, nostro fratello e nostro carnefice; di cui noi siamo l’habitat vitale, che ci rende difficile respirare, che è il nostro contatto con Gaia, la vita, terra, luogo materno, corpo-paesaggio. Noi siamo il loro mondo e loro invadono il nostro, facendoci mettere in discussione chi siamo? Cosa siamo? Ci hanno dato un cartellino giallo, come individui e come società, noi composti da 3 trilioni di cellule con il nostro DNA, e da un quadrilione di cellule estranee, microbi, batteri e virus di cui abbiamo bisogno per vivere. La cellula, l’inizio della vita, tutto questo mi ha portato in fondo al mare, a miliardi di anni fa, e da lì è uscita questa cellula-polpo, sopolpovit’ereticole, con le sue membrane-tentacoli, serpenti, boa constrictor, kundalini, linee, cromosomi, collari. Così è germogliata la mostra, giorno dopo giorno, una pietra dopo l’altra…».

Leggendo le prime informazioni sul tuo progetto per Bergamo, abbiamo scoperto dell’utilizzo di materiali incontrati sul posto, pietra e paglia, tessuto e essenze, con la volontà di porre in luce la visione che per molto tempo identificò il “nuovo mondo” agli occhi e nelle idee degli abitanti del “vecchio mondo”. Qual è la tua concezione di “Nuovo Mondo” oggi, e quali sono i problemi che ancora abbiamo con lui?
«Il nuovo mondo é il vecchio mondo, ma molto più vecchio di quello che chiamiamo il “vecchio mondo”, un vecchio mondo ancestrale, assolutamente connesso con la natura, con l’organismo vivo che è la terra, e connesso con il nonno Sole, palla di fuoco cosmica, padre di tutta la vita. La potente luce dell’interno del Sole, con la enigmatica oscurità interiore della nonna Terra-Acqua: questa combinazione è l’alimento delle piante che generano l’aria, alimento nostro e di tutta la famiglia della fauna, di noi viventi. Quest’ancestralità di cui parlo è indigena, è addormentata in noi ma ancora viva! È in questo allontanamento dalla nostra famiglia, dagli animali, dalle piante, che abita ogni dolore, lamento, avidità. Le parole ci hanno illusi, ci siamo innamorati di noi stessi, con il Rinascimento abbiamo smesso di essere al centro del mondo, ma la cultura, i nostri prodotti, la nostra capacità creativa, la nostra arte ci ha dato nuovamente l’idea di essere al centro del mondo. Siamo belli, così come un fiore, un lago, il vento, una montagna, un gattopardo, una libellula, il sole e tutta la famiglia. In questo momento i nuovi vecchi mondi portano i tamburi dell’Africa, i canti delle Americhe, le meditazioni dell’Oriente; siamo molto di più di quello che pensiamo e molto meno di ciò che esternalizziamo. Il nuovo mondo non è nella luce, nell’illuminismo, ma nell’oscurità, nell’interno, nelle radici, nel femminile della terra, nelle foglie, in noi, in ognuno di noi…partendo da questa oscurità possiamo incontrare la luce; il seme cresce nel buio della terra, cresce in cerca della luce, ma mantiene i piedi dentro la terra, dove le dita dei piedi bevono acqua, pura, divina, cristallina».

Ernesto Neto, Children of the Earth, Tanya Bonakdar Gallery, Los Angeles, USA, 2019. Photo: Flying Studio. Courtesy of the artist and Tanya Bonakdar Gallery, New York : Los Angeles

Nel tuo lavoro hai sempre avuto attenzione per i temi dell’ecologia, dell’ambiente, del riciclo: cosa succede quando i temi si trasformano in moda? Perdono la loro capacità di essere mordenti, di essere importanti?
«Nel mio lavoro c’è sempre stato il tema della vita, dell’esserci, di essere vivo qui e ora, di sentire la vita e il tempo in questo esatto momento, e quando affermiamo questa potenza, questa grazia e questa allegria, siamo interi. Quello che possiamo chiamare “pensiero occidentale” razionalizza la vita separandola e classificandola in ambiente, ecologia, agricoltura, fisica, cultura etc. Tuttavia, questa moda ha un fondamento e può abitarci per un lungo periodo e chissà che ci trasformi. Il fatto che questi valori siano di moda è perché ci troviamo nel mezzo di una catastrofe socio-ambientale; negli ultimi 50 anni, lo sviluppo accelerato ci ha spinto in un abisso. Quando sono nato si pensava che potessimo distruggere il mondo a partire da una guerra atomica, oggi vediamo che possiamo distruggerci (non distruggere la Terra o la vita, che continuerà nonostante noi) semplicemente attraverso il nostro modo di vivere. Si vende il sogno di vivere bene consumando tanto (che è un vizio) al posto del buon vivere che è salute, connessione con la natura, amici, collettività, spiritualità. Comunque, si, l’ecologia è di moda e la moda è parte della società dei consumi, ciò nonostante stiamo vivendo un cambiamento dell’asse terrestre dal 2012, quindi questa moda può essere l’inizio di una grande trasformazione: ascoltare le culture che non sono state ascoltate per 500 anni, è ora di ascoltare la terra, i tamburi, i flauti e le maracas, respirare e incontrare se stessi, pensare nella collettività, tendersi la mano e, chissà, toglierci l’oro dalle dita e riconoscere in esse la nostra ancestralità e animalità. Ah, come amo le dita; loro insegnano; si parla tanto della cuca (testa, cranio, cocco, cerebro, mente, intelligenza, intelletto); lei sa tanto, ma le dita sono maestre».

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