A partire dal 29 giugno, una grande punta tesa al cielo, di colore rosso fuoco, alta 18 metri, accoglie i visitatori all’ingresso del Museo Castromediano di Lecce. Elpìs, questo il titolo dell’opera, è, insieme a Prometeo, gigantesca scultura vitrea ospitata nel giardino interno, l’intervento permanente che il noto artista greco Costas Varotsos (Atene, 1955) ha ideato per il museo salentino, in seguito all’approvazione del progetto all’interno del PAC – Piano per l’Arte Contemporanea del Ministero della Cultura, volto a incentivare la ricerca visiva contemporanea e ad arricchire le pubbliche collezioni. Elpìs è il fuoco della conoscenza, lo stesso che animava Sigismondo Castromediano più di un secolo fa e che il museo a lui intitolato ambisce a tenere vivo. Prometeo è colui che quel fuoco lo ha rubato agli dei per restituirlo agli uomini e che oggi lo alimenta, in una sfida costante verso l’ignoto.
Con la mostra Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa (fino al 12 gennaio 2025), a cura di Giusi Giaracuni, storica dell’arte, e Luigi De Luca, direttore del museo, Varotsos torna nel Salento. Dopo il talk tenuto lo scorso ottobre al Museo Archeologico Ribezzo di Brindisi, nell’ambito del progetto Ospitalità dello sguardo, promosso dalla Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare, e il lungo lavoro di trasformazione operato sulla motovedetta albanese Katër i Radës, naufragata al largo di Otranto nel 1997 e oggi trasformata nel Monumento all’umanità migrante, lo scultore greco ha attraversato nuovamente l’Adriatico per dare corpo ad una personale composta da nove sculture, progettate a partire dagli anni Ottanta e oggi ripensate in stretto rapporto con la struttura e l’allestimento del museo leccese.
Hai studiato in Italia e qui sono diverse tue opere. Come descriveresti il tuo rapporto con il nostro Paese?
«L’Italia per me non è un paese estero. Io ho diviso la mia vita tra l’Italia e la Grecia. Più della metà della mia vita si è svolta qui. Tutta la mia formazione accademica è italiana. Per questo posso dire di essere più rinascimentale che bizantino. Tuttavia mi porto dietro la parte classica della Grecia. Questa parte posso dire di averla conosciuta più qui che nel mio Paese. In Italia l’antica Grecia è dappertutto. Il mio rapporto con l’Italia è molto profondo e qui sento di avere parte delle mie radici. Ho iniziato a studiare all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1973 ma ero già stato a Milano da turista nel 1968. A Roma seguivo gli eventi artistici di allora, assistendo al successo della Scuola di Piazza del Popolo e poi al boom dell’Arte Povera. In quegli anni non c’erano ancora molti turisti e Roma era dei romani».
Le tue sculture dialogano sempre con lo spazio circostante valorizzandone gli aspetti storici ed esaltandone le specificità paesaggistiche e formali. Ma al momento di progettare un lavoro da dove inizi? Qual è il tuo iter progettuale?
«Lo spazio è fondamentale perché attraverso esso si ha la possibilità di affrontare certi temi in relazione al momento storico in cui si vive. Rispetto al presente è sempre necessario avere uno sguardo critico: per me è importante capire l’essenza del tempo reale. Per questo strutturo sempre le mie mostre cercando di rappresentare il presente. In merito a questo non è importante dare risposte ma porre delle domande, rappresentarlo per indurre chi guarda ad interrogarsi su di esso. Anche un lavoro come Orizzonti realizzato sulla Morgia, in Abruzzo, nel 1997, così legato al paesaggio, ha in sé una forte coscienza ecologista. In quel lavoro c’è un invito a cambiare atteggiamento verso la Natura, a ripensare alla nostra relazione con la Natura. Nel mio lavoro ho sempre cercato di entrare a far parte della Natura, di inserirmi nella stratificazione del tempo e dello spazio. Le opere non devono parlare di sé stesse ma della loro relazione con il qui e ora».
“Niente giustifica la sopravvivenza della scultura nel mondo moderno. Però si ricorrerà a lei ugualmente nelle circostanze solenni e per gli usi commemorativi” ha sentenziato Arturo Martini. Qual è il tuo pensiero a riguardo? Qual è per te la funzione della scultura oggi?
«Nella storia dell’umanità troppe volte si è parlato della fine di alcune cose in modo assoluto: la morte dall’amore, la morte dell’arte, la fine della politica. Ma questo è avvenuto solo perché il dato momento storico lo richiedeva. Io non penso che la scultura potrà mai scomparire. Il nostro stesso rapporto con la realtà è multidimensionale. Finché l’uomo si muoverà nello spazio la scultura esisterà: noi stessi siamo sculture in movimento. Come l’uomo è elemento tridimensionale che cerca costantemente se stesso, allo stesso modo la scultura è un elemento vivo che sta nello spazio, che parla dello spazio. La scultura è per me elemento di verifica dell’esistenza dell’uomo».
Nove interventi scultorei connotano la tua nuova personale al Museo Castromediano in cui dialoghi con i “paesaggi” dell’allestimento archeologico. Nella strutturazione della mostra quali sono stati i maggiori ostacoli incontrati e quali i risultati migliori raggiunti?
«Quando prepari una mostra la difficoltà principale è costruire il giusto dialogo con i tuoi interlocutori. La mostra è sempre un lavoro di squadra. Il museo inoltre è un contesto diverso dalla natura o dalla città. È un’istituzione, è un luogo che contiene oggetti culturali. Non si è da soli, ma devi operare in relazione con tutto questo complesso sistema di persone e oggetti. Devi aprire un dialogo e dire la tua. Siamo in un momento storico di profonda crisi, nel quale è necessario ritrovare un dialogo, a tutti i livelli. Il risultato migliore l’ho raggiunto all’inaugurazione, quando la mostra ha iniziato ad interagire con il pubblico».
Due delle opere della mostra, Prometeo ed Elpìs, la cui realizzazione è stata finanziata dal PAC del Ministero della Cultura, rimarranno in permanenza nel Museo Castromediano? Come sono nate e come si inseriscono nel percorso del museo?
«È necessario chiarire che queste due sculture sono progettate affinché, all’occorrenza, possano essere rimosse. Per me è importante non imporre nulla. Nel progettare queste due opere non volevo “disturbare” l’interno del museo. Per questo ho scelto di lavorare negli spazi esterni. Nell’atrio antistante ho posizionato il fuoco di Prometeo, posto a simboleggiare l’ispirazione e i grandi valori che informano l’uomo. Un’opera che riflette la stessa funzione del museo, come luogo di conoscenza. La grande figura di vetro posta al centro del giardino, rappresenta Prometeo, ma più in generale l’uomo. Tutto ruota attorno all’uomo. Credo sia fondamentale oggi riparlare del ruolo dell’essere umano, non solo rispetto alla Natura ma anche all’intelligenza artificiale. È in pericolo l’essenza stessa del pensiero e quindi dell’esistenza umana. Per questo ho voluto mettere al centro l’uomo, ho voluto evidenziare questa centralità».
La mostra al Museo Castromediano si intitola Elpìs. Qual è la tua speranza di artista e di uomo rispetto al futuro dell’umanità?
«Il concetto di Elpìs interviene quando si è disperati. Io sono disperato. Sono disperato per la situazione odierna in Europa e nel mondo e per la condizione esistenziale dell’uomo oggi. Il prossimo passo di un disperato è Elpìs, è la speranza. La mostra è esistenziale ma anche molto politica. Molte delle opere rinviano al concetto di disperazione al quale si contrappone quello di speranza. Qualcuno mi ha detto che la politica è una guerra continua. Allora l’arte possiamo dire che sia una preghiera perpetua».
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