Ma quanto fa effetto ritornare a Villa Croce dopo un po’ di tempo. Qualche anno, tre ad essere precisi, con in mezzo di tutto e di più: querelle di varia natura, cacciate, reintegri e pure una pandemia. Per questo cari nostri lettori qui si parlerà di Tomas Rajlich (Jankov, 1940) e di “Make It New! Tomas Rajlich e l’arte astratta in Italia”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Flaminio Gualdoni con Martin Dostal (fino al 22 agosto), ma simultaneamente si apriranno e chiuderanno svariate parentesi. Un po’ perché è il tipo di esposizione che lo richiede. Un altro po’ perché signore e signori questa è Genova, e quella è Villa Croce. E – come direbbe Totò – ho detto tutto.
Soprattutto c’è un brivido nel tornare e sentire Anna Orlando, advisor per arte e patrimonio culturale del Comune di Genova, enunciare alla distanziata platea le buone intenzioni di un museo che pare avere ritrovato una progettualità , tra criteri di «Apertura e alternanza». E che «Ogni stagione avrà partner diversi», e che interverranno «Curatori affermati e giovani”, e che si spazierà tra «Temi più mainstream e più di ricerca». E che, apriamo la prima parentesi, la prossima mostra sarà interamente dedicata al naturalizzato genovese Giannetto Fieschi. Il brivido inizia ad accusare il colpo, pare quasi voler dire “goditela ora, che domani insomma”. Viene pure da pensare male, a quanto gli artisti locali siano trattati più come una tassa che una benedizione. Ma che ne capisce il sottoscritto, è romano. Comunque essere prevenuti non è il nostro forte, staremo a vedere. Per ora diamo retta ad Orazio, carpe diem.
Fa piacere tornare per Rajlich, perché è una figura internazionale abbastanza corposa per essere criticamente apprezzabile, e abbastanza estranea dal novero delle guest star del contemporaneo. L’uomo giusto per spiegare il concetto di “profilo basso”, coperto perfettamente dal pluralismo di una mostra di cui è sì protagonista, ma non assoluto. Dall’aver immolato quindi l’individualismo in favore di una percezione più comunitaria dell’arte astratta, preferendo all’azione autoreferenziale dell’antologica un intreccio d’idee, ideali e possibilità ; in un dialogo che, aperta parentesi, potrebbe costituirsi come una specie di format capace di arricchirsi con nuovi interventi, anche di nuove leve dell’aniconismo. Ultimo ma non ultimo, dal sentirsi raccontare dalla responsabile del museo genovese, l’insostituibile Francesca Serrati, che era lì a lavorare all’allestimento fino al giorno prima, per poi eclissarsi all’inaugurazione. Qui siamo di fronte al gran visir del “profilo basso”.
Essere consapevoli di non trovare Rajlich in solitudine è niente di fronte alla realtà che abbia «Fatto una scelta personale degli artisti con cui dialogare», come ricorda Biasini Selvaggi. Che prosegue dicendo quello che tutti avremmo voluto sentire, ovvero «Questa mostra non ha una linea da manuale». Effettivamente è palpabile la sensazione che questa “rete dell’astrattismo” sia nata più per un forma di empatia tra simili che per freddo calcolo critico, dall’incontro diretto tra l’artista e una collezione – quella di Villa Croce – definita, come riporta Serrati, «Non banale» e mai «Uguale a sé stessa».
Rajlich che ragiona sulla sua mostra in fondo è già parte della mostra stessa. Possiamo solo immaginarlo lì, intento fino a pochi giorni prima ad occuparsi di abbinare/disporre ogni pezzo. A vivere momenti di allestimento vissuto in compagnia di pietre miliari dell’aniconismo. Arrovellandosi sul come accoppiare il bianco di un Achrome di Manzoni e il rosso di un taglio di Fontana. «Ci ha pensato tanto su come disporli» ricorda Francesca Serrati, cambiando più volte idea su spettasse stare a destra e chi a sinistra. Per la cronaca, alla fine ha vinto Fontana a destra e Manzoni a sinistra. E, nella stessa sala, ancora Serrati mette l’accento sull’amore di Rajlich per l’acrilico bianco di un lavoro del di Martino Oberto. Un pezzo fortemente voluto dal nostro, per una simbiosi che ce l’avessero raccontata non avremmo scommesso un euro. Sbagliando di grosso, perché in quella pulsione per un acrilico bianco “azzerante” del genovese c’è tanto delle intenzioni gestuali di Rajlich.
Dall’artista plastico degli anni ’60 – Rajlich si diploma in scultura, ruolo in cui già era chiaro un interesse per il rapporto linea/volume – al pittore degli acrilici ultra-sparkling di oggi. A Villa Croce è di casa un Rajlich più sfaccettato, radicale nelle sue scelte; uno che a sentire Gualdoni è nella «Posizione anomala» di non dimostrare diretto interesse per «Il senso del fare il quadro», perché «A lui importa che continui ad uscire la pittura». Rajlich è uno che dedicandosi alla sua ricerca più che al successo «Ha azzardato», e che davanti alla tela «Prova ancora ansia dopo anni di carriera». Immaginiamo non serva aggiungere altro.
Anzi, aggiungiamo che molte opere in mostra sono di Rajlich non solo nel senso di “fatte da”, ma di “appartenenti alla sua collezione privata”; che è anche un ulteriore modo di giocarsela fino in fondo, uscendo dalla confort zone del già visto e provato. E non fosse per le disposizioni anti-Covid non ci sarebbe nemmeno un percorso da seguire: la razionalità cronologica deve arrendersi di fronte all’approccio passionale di una mostra che sembra quasi un happening, dove teste con stesse idee e obiettivi diversi si ritrovano a coprire “tutte le anime” del confronto.
Per capire Rajlich in fondo bisogna (as)saggiare la sua arte, ché se non lo fai non puoi capire. Solo così può diventare difficile trattenersi alla tentazione di mordere un favoloso trittico datato 1988, caratterizzato da una pennellata a densità variabile e potenza occlusiva. Per mettere quindi il suo sapore a confronto con quello di due cementi su tela di Enzo Cacciola sulla parete a fianco, avvertendone ogni minima sfumatura.
Perché questa mostra è tutta un’altalena di assonanze e contrasti. Una stratificazione di gusti. Che nascono anche da abbinamenti decisamente “spinti”, come quello tra la materia bianco perla del nostro e l’interstiziale ricerca cromatico-lineare di Piero D’Orazio. Poi ce ne sono altri apparentemente azzardati, ma che sotto sotto sono virtuosismi pari a “l’alfa e l’omega”. In un percorso nella ricerca aniconica che arriva ad un recentissimo grande acrilico glitterato di Rajlich, un rosso “natalizio” corposo, passando dal radicalismo visuale di Claudio Verna.
Ad inframezzare il tutto ci sono lavori come Cauri, del 2003, dove il ritmo di un acrilico fatto materia e il senso per la rifrazione luminosa sposano le stesse esigenze espressive di Getulio Alviani. Poi c’è il masterpiece assoluto, perfetto anche in quanto parte di un continuo interrogarsi di Rajlich sulle proprie potenzialità e su quelle dell’astrattismo. Con la sua potente griglia nera su fondo grigio, Untitled del ’69 crea un gioco dinamico di prospettive che è chiave d’accesso al mondo dei cinetismi optical. Solo un muro lo divide dalla sua anima gemella. Nella sala a fianco infatti c’è un Dadamaino datato 1960, molto rajlichiano nella struttura ordinato-dinamica di ogni foro su plastica fustellata.
Perché chi mastica di critica d’arte – e non sputa una sintassi roboante – sa che l’astrazione è anche una questione di feeling, in grado di manifestarsi con una certa disinvoltura. Un’intesa di fattori pratici, che potrebbe continuare citando il senso del ritmo di Melotti, quello per la struttura di Uncini, quello per la pittura come geometria concreta di Munari. Oppure spezzarsi d’un tratto, senza preavviso, come accaduto al sottoscritto, rimasto per svariati minuti a ragionare su un minuzioso bozzetto di Pietro Consagra. L’astrazione ha pur sempre una sua biodiversità .
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