Si è inaugurata lo scorso 22 giugno, presso gli spazi suggestivi dell’Area Manica del Mosca del complesso della Cavallerizza Reale, a Torino, la mostra “Ephemera”, con un’opera di Daniel Gonzàlez e un’installazione di Anonima Luci realizzata in collaborazione con la sound artist Katatonic Silentio. Promossa da Paratissima, l’esposizione è a cura di Francesca Canfora e Laura Tota, è stata realizzata con la collaborazione e il contributo della Compagnia di San Paolo e rimarrà aperta al pubblico fino all’autunno.
Si tratta di un evento particolare, una mostra più da vivere e da abitare che da fruire nel modo tradizionale secondo il quale siamo abituati a percorrere le sale espositive, per esempio, di un museo o di una galleria. Uno dei primi aspetti da sottolineare è, infatti, lo spazio stesso: un luogo suggestivo, fatto di magiche proporzioni barocche, che viene restituito alla collettività dopo anni di semi abbandono e alterne vicende, grazie al lavoro e alla creatività delle persone coinvolte.
Gli spazi sono stati riadattati e interpretati dagli artisti con l’obiettivo di renderli vivibili e abitabili per un periodo di tempo limitato e da parte di un pubblico variegato, non necessariamente di addetti ai lavori. Tale aspetto dona ancora più valore all’evento, mettendo in luce come e in che misura le opere d’arte possano dare alla collettività un importante contributo, interagendo in modo virtuoso e creando situazioni di dialogo, scambio e godimento di luoghi e spazi che appartengono alla storia della città.
Da notare il fatto che questo sia stato, originariamente, un luogo destinato a ospitare una realtà militare, mentre ora gli stessi spazi sono abitati da qualcosa di profondamente gioioso, che ha a che fare con il gioco e con la festa. Ciò che fu destinato a preparare la guerra, diventa così luogo di condivisione, in cui le barriere sociali sono, anche solo per pochi momenti, abbattute, per fare spazio a un altro è più proficuo modo di stare al mondo.
E se l’installazione luminosa del collettivo milanese Anonima Luci trasforma lo spazio espositivo in una sorta videogioco in cui possiamo muoverci, abitando le linee che scandiscono i tempi e i movimenti del nostro percorrere lo spazio stesso, l’installazione di Daniel Gonzàlez è ancora più orientata al tema del gioco della festa. Ma cominciamo dall’inizio.
Il lavoro di Anonima Luci ci fa sentire come se fossimo improvvisamente proiettati all’interno di quelle opere d’arte rinascimentali, dove per studiare la prospettiva e indagare la dimensione spaziale che le contiene e che è in essa contenuta, tracciamo linee che portano verso il punto di fuga, con lo scopo di leggere l’opera collocando personaggi e oggetti nella corretta prospettiva. In quest’opera, però, noi fisicamente entriamo in questo spazio: non in maniera metaforica ma concretamente. Giocando con la nostra percezione, varchiamo una soglia che è soprattutto mentale, i nostri movimenti scanditi dall’aspetto sonoro dell’opera, studiato ad hoc. La sensazione è quella di trovarci in un luogo “altro”, dove le normali regole percettive sono momentaneamente sospese per lasciare spazio alla meraviglia. Ne nasce un’esperienza artistica con qualità trasformative.
Queste qualità giungono a toccare l’animo in profondità nel caso dell’opera di Daniel Gonzàlez, che porta il titolo Parade Curtains. Si tratta di un intervento site-specific, che consiste in una serie di fogli molto leggeri appesi in migliaia di frange colorate, dorate, luccicanti, estremamente leggere, poste sulla struttura esterna dello spazio del cortile. Di fronte a esse è stato creato un piccolo luogo di ritrovo, con sedie e sdraio, dove il pubblico può fermarsi e sostare, godendosi la meraviglia del gioco di forme e colori agitate dal vento come agili fiammelle di un romantico falò sulla spiaggia. Ogni struttura di frange luccicanti corrisponde a quello che fu lo spazio di una finestra, ora chiusa, integrandosi perfettamente con la struttura architettonica dello spazio stesso. Ciononostante, il luogo, attraverso l’opera, acquista una nuova natura: un nuovo genius loci del tutto diverso da quello che fu all’origine lo viene ad abitare e, da ex luogo militare, lo spazio si fa gioco, festa, celebrazione gioiosa della vita.
L’opera d’arte per Daniel Gonzàlez diventa, così, prima di tutto un luogo: luogo del rito e della festa, intesi come riposo e ristoro della mente e del cuore. Non c’è qui volontà sovversiva di capovolgimento dell’ordine esistente, come nel carnevale di cui scriveva Michail Bachtin. Qui l’ordine non si sovverte: piuttosto si sospende. L’arte crea un momento di respiro, da condividere collettivamente, in cui le barriere sono abbattute, qualsiasi scambio diventa possibile, al di là delle regole sociali abituali. Si schiude uno spazio di allegra libertà, insieme leggera e profonda, che si fa anche luogo della scoperta, innanzitutto, probabilmente, di aspetti di noi stessi altrimenti, e prima di tutto a noi stessi, inaccessibili. L’opera, così, fa da punto di riferimento, di ritrovo: è un richiamo per unire le persone. Non violenta lo spazio, ma lo abita e, dolcemente, lo trasforma, rendendolo abitabile.
Per questo è fondamentale che si tratti di architetture effimere, cioè qualche cosa che c’è e che viene poi rimosso e dismesso, per abitare soltanto la memoria. In questo senso, ispirata alle scenografie effimere del Bernini, l’opera ricorda la struttura inutile creata dal protagonista di 8 e 1\2 di Fellini per il film che non farà mai. Ma proprio come quella struttura nel finale del capolavoro di Fellini, l’opera è ciò attorno a cui, per un certo lasso di tempo, avverrà il ritrovo degli esseri umani e dei loro sentimenti belli e imperfetti.
Non c’è quindi alcuna hybris: non siamo di fronte a un monumento che si impone e cambia la fisionomia di uno spazio in maniera permanente, dettando nuove regole abitative. Qui siamo di fronte a qualcosa di plastico, di sentimentale: qualcosa capace di suscitare emozioni e creare situazioni di vita concreta, gioia e dolcezza, semplicemente incoraggiando la naturale capacità umana di festeggiare insieme, di dialogare di avere uno scambio emotivo e sincero. Nell’attuale panorama storico e sociale, difficile pensare a qualcosa di più prezioso.
A completare l’evento espositivo, in un angolo del cortile è posto un piccolo oggetto scultoreo: una sorta di tavolo volutamente inutilizzabile ma capace di trasformarsi, chissà come, nella forma di un uccello e prendere metaforicamente il volo. È un’opera di Francesco Convertini, detto Ciulicchio, compagno di avventure dello staff di Paratissima prematuramente scomparso, di cui si è voluta onorare la memoria.
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