Nell’attuale panorama bellico e di ostracismo russo, inaugurare una mostra di un’artista siberiana è già una notizia. A Milano Amy D arte spazio, di Annamaria d’Ambrosio, accoglie Lena Shaposhnikova, nata nel 1990 a Irkutsk, città definita la “Parigi della Siberia”, il punto di arrivo delle avventure di Michele Strogoff, protagonista dell’omonimo romanzo di Jules Verne, dove ha studiato arte e architettura che vive e lavora a Firenze.
Questa è la prima mostra personale milanese dell’artista siberiana che raccoglie un corpus di opere diverse a tecnica mista, inclusa Russia, una imponente installazione cubica in poliestere (di 2×2 metri), capaci di fagocitare lo sguardo dello spettatore dentro a un segno trans-avanguardista, dai colori cupi, seppure fluidi, lungo le sponde sconfinate di dolore, fallimenti e solitudini globali in un mondo di fantomatiche presenze, naufraghi senza legge fuori dalla storia, tra realtà e immaginazione.
Tutto inizia là, dentro le sue opere come, Fino alla fine dei giorni, From Siberia love vol I o Neve Gialla #1, olii su tela impastati di pigmenti scuri, di taglio simbolista-espressionista, dalle atmosfere apocalittiche dentro a smaterializzazioni formali, che rispecchiano fallimenti esistenziali, vissuti soggettive e universali.
Shaposhnikova inscena nella galleria milanese le pareti algide di una Siberia innevata – immaginaria nelle opere dell’autrice – e una drammatica commedia umana della solitudine globale, in cui i nostri destini sono alla mercé delle insidie della sofferenza; materia dell’arte, della vita.
Lo spettatore, zizzagando tra le opere assemblate come tessere di mosaico alle pareti, intrecciano racconti visivi di vita attraversata dal suo contrario, la morte. Non si dimenticano sette taccuini di acquerelli animati da esseri alieni, sopravvissuti a chissà quale guerra nucleare; larve dall’energia radioattiva che sembrano diventare l’equivalente di ogni realtà e misura di tutte le cose, senza definire quale, dentro un‘ottica che vuole cogliere il visibile e l’invisibile, la forma e il mostruoso dalla sublime bellezza.
E se “Gli occhi hanno paura ma le mani fanno” come suggerisce il titolo di questa mostra, con il testo critico di Evfrosiniya Bumazhnova, le opere esposte realizzate nell’arco degli ultimi tre anni, agiscono nella mente e sensibilità di chi le guarda per riflettere sulla complessità del presente.
Sembrano “glossari” di sentimenti d’animo soggettivi e universali insieme le opere di Lena, composte di impasti fluidi e densi di speranza e nichilismo, memoria, ragione e immaginazione, consapevolezze dissolte come la neve al sole nel vortice del caso e dell’improvvisazione di un disagio esistenziale diffuso
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