Un pittore originario e originale, isolato dai circuiti del sistema dell’arte e dalle mode. Dopo i viaggi e le mostre che lo portano in giro per il mondo, ritorna sempre in Calabria, la sua regione. Abbiamo raggiunto Cesare Berlingeri, che ci parla della sua ricerca e della sua vita, in questa intervista.
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato nel 1948 a Cittanova (RC), un piccolo paese ai piedi dell’Aspromonte, in una Calabria piena di ombre e misteri dai contrasti forti, dove il sacro e il magico erano la stessa cosa. Vivo e lavoro a Taurianova, a pochi chilometri dal mio paese natio. Credo che il mio lavoro sia radicato all’interno della natura e della cultura Mediterranea. Ezra Pound non si stancava mai di dire che per meritare di essere chiamata universale l’arte deve essere prima locale».
Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?
«Nel sud Italia, nel dopoguerra, non c’erano molte possibilità di scelta; ho fatto l’arte dei poveri, quella a cui basta un foglio di carta e un carbone. L’informazione artistica nel dopoguerra era nulla in Calabria, specialmente in un piccolo paese come Cittanova. Ignoravo che nei primi del Novecento ci fossero stati il Futurismo, il Cubismo, l’Astrattismo, il Dadaismo. Non sapevo nulla. Ero abituato a fare dei dipinti più somiglianti possibili al modello che avevo davanti. Quando ho deciso di fare il mio primo viaggio, andai a Milano nel ’65 dove, per la prima volta, vidi opere che non rappresentavano un paesaggio né una figura o una natura morta. Vidi quadri straordinari come i concetti spaziali di Fontana, gli achrome di Manzoni, i sacchi di Burri. L’emozione che provai cambiò la mia vita. Poi nel ’68 ci fu il viaggio che feci a Parigi. Vidi Cézanne, Picasso, Matisse, Brancusi. Ci misi poco a capire che non c’era bisogno di riprodurre la realtà come la vediamo. Freud aveva avvertito come l’uomo rischiava di soccombere sotto l’effetto del principio di realtà. Oggi siamo immersi nell’illusione disincantata della proliferazione delle immagini: abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che è nell’assenza che nasce la potenza. Al mondo non serve un artista che mostri la realtà. L’arte è un enigma nell’enigma».
Qual è stato l’incontro più significativo per la tua formazione?
«Un anziano pittore, il maestro De Leo che insegnava pittura all’Accademia di Liegi, Belgio, e che si era ritirato in pensione a Cittanova, suo paese di origine. Lo incontrai all’età di 10 anni, era un artista molto accademico. Lui non amava le avanguardie, amava solo la pittura figurativa, molto accademica. Era contrario a tutti i movimenti che finivano con gli -ismi, compreso l’Impressionismo. Mi insegnò tutte le tecniche, dal disegno alla pittura a olio, all’affresco. Furono anni molto molto intensi e formativi».
C’è stato un accadimento o un incontro così intenso da farti cambiare il modo di guardare le cose?
«Un giorno a teatro osservai il fondale di un cielo stellato, da me dipinto, mentre i macchinisti lo stavano piegando per riporlo via. L’emozione che ebbi nel vedere quel cielo che si stava trasformando, di piega in piega, in un buco nero che assorbiva energia fu per me una rivelazione. Da quel momento cambia il mio modo di concepire lo spazio dell’azione del mio essere pittore. Nascono i dipinti piegati come fagotti da viaggio. È come dipingere il mare, il cielo, le atmosfere e portarseli in viaggio per il mondo. L’incontro fondamentale è stato quello con Tommaso Trini. Sono stati il suo intuito e la sua conoscenza a capire la forza del mio lavoro. Grazie Tommaso!».
C’è una mostra (non tua) che ricordi con particolare intensità?
«Sì, nel 1975. Mi trovavo a Firenze per la mia prima personale alla galleria A x A. A Palazzo Strozzi vidi la mostra di Rufino Tamayo. Fu la prima volta che vedevo i pigmenti usati in maniera così sapiente e magica, il tutto accentuato da un’illuminazione fatta con dei sagomatori che colpivano solo le opere. È stata un’emozione talmente forte che ancora vive in me con la stessa intensità di allora».
Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno influenzato?
«Penso di condividere alcuni aspetti mentali con artisti come Fontana, Burri, Klein e Manzoni perché mi sono formato anche su quella generazione. Roma negli anni settanta, per me, era fantastica. La mattina in via del Babuino vedevo passare artisti come De Dominicis, Ontani. Tutti, nella loro diversità, mi hanno influenzato nel modo di pensare l’arte. È chiaro che mentalmente ero più vicino a Malevič o a Mondrian, ma era Francesco Losavio che mi incuriosiva e affascinava per la sua ricerca sulla luce e sulla trasparenza. Riguardo le opere, sono stato influenzato molto dalla Cappella degli Scrovegni di Giotto per i suoi blu e per il rigore della grande composizione. La crocifissione di Matthias Grunewald per l’esecuzione sublime; la danza di Matisse mi ha insegnato che si può fare un capolavoro con tre colori; il quadrato nero di Malevič e tutta la grande pittura di tutti i tempi».
Qual è la tua giornata tipo?
«La mattina mi alzo presto, faccio una bella camminata, una ricca colazione, caffè e alle 8:00 entro in studio con il mio assistente. Aspetto che un segno, un colore o un’ombra mi diano il via per iniziare il viaggio nel mondo delle forme e dei colori».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Sì. Nello spazio della superficie tutto può essere imprevisto. Spesso l’imprevisto è un miracolo! Il Tao dice che se il viaggiatore conosce la strada non fa il viaggio. Io amo l’ignoto, il dubbio e l’imprevisto».
Hai mai paura di fare quello che fai?
«Sempre!».
Hai mai avuto dei momenti di crisi durante il tuo percorso artistico? Come li hai superati?
«Sono sempre in crisi! Per me la crisi è un salto in avanti».
Come descriveresti la tua ricerca?
«Da 40 anni lavoro a delle opere costituite da più superfici piegate. È proprio con questa struttura, dalle combinazioni infinite, che i dipinti piegati producono immagini che si avvolgono su se stesse fino a divenire spazio, come nuvole di colore».
Qual è il filo della tua ricerca e le sue pratiche?
«Se un’opera non provoca in chi la guarda un rinnovamento della visione delle cose, è come se non esistesse. Con il mio lavoro non esprimo mai giudizi morali, non prendo posizioni sul sociale. Lavoro per trovare un altro luogo che è quello dell’arte».
A che punto decidi che un tuo lavoro è finito?
«Quando mi passa il mal di pancia».
Mi parli della fisicità concreta nel tuo lavoro?
«Il mio lavoro può apparire primitivo nel senso che riconduce a un gesto fisico: manipolare una materia lasciandovi le impronte. Piegare un dipinto è come fare una pantomima di segni volatili nello spazio».
Quali sono le ricerche che più ti rappresentano e meglio trattano le tue aspettative?
«Il colore; l’idea di stare dentro il colore; quello che il colore riesce a restituire, che forse è la cosa che racconta meglio i miei desideri».
In quale direzione sta andando la tua ricerca artistica?
«Verso la purezza del colore. Non voglio avere nessuna rappresentazione figurativa nel mio lavoro. Voglio che la persona che guarda l’opera sia in osmosi totale con l’opera che a sua volta guarda la persona».
Quali sono gli strumenti preferenziali per lo sviluppo del tuo lavoro?
«La tela per la sua duttilità a essere piegata, i pigmenti allo stato puro, gli oli, le colle e le schiume poliviniliche».
Con quale artista del presente o del passato vorresti fare un duetto artistico? Un progetto a quattro mani?
«Del presente Peter Halley, del passato Piero della Francesca».
Tra i tuoi progetti e le mostre realizzati, cosa ti ha dato più soddisfazione e, al contrario, più delusione?
«Più soddisfazione un’installazione di volumi colorati, tele avvolte, nelle gallerie buie della Mole Vanvitelliana di Ancona, dal titolo “I silenziosi”. Più delusione una mostra e una grande installazione in due piccoli comuni. La prima, già imballata, non è partita perché il Comune si è ricordato che il luogo dove avrei dovuto esporre non aveva l’agibilità. La seconda, gran bella installazione, boicottata dalla negligenza organizzativa: spesso era chiusa. Non mi va di aggiungere altro, ma ti assicuro che rimane l’amaro in bocca. Questi disguidi, secondo me, avvengono per ignoranza. Non si conosce, né si capisce, il lavoro che c’è dietro la preparazione di una mostra o di una grande installazione».
Qual è la critica più forte che senti di fare al sistema della cultura e dell’arte di oggi?
«Ciò che limita l’arte è il sistema dell’arte. Oggi l’arte ubbidisce al gusto di chi la compra. Chi colleziona arte oggi è spesso alla ricerca di consensi. L’artista spesso produce un’arte ubbidiente, attenta al marketing del gusto più diffuso. L’artista non è più contro la visione delle immagini di massa per un pubblico globalizzato, quindi produce senza pathos. La vera anomalia del sistema è che il prezzo di un’opera sia diventato il certificato di qualità».
Che cosa pensi del rapporto tra l’arte contemporanea e la politica?
«Tutto il male possibile. Oggi l’arte sceglie di essere la voce del coro politico e delle masse. Allora ecco che ritorna l’arte di regime».
Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla realtà?
«Sulla realtà delle forme e delle immagini, sì. Per quel che riguarda la politica, il sociale e il potere, no. Perché l’arte è antitetica a qualsiasi forma di potere».
Qual è il tuo atteggiamento verso la spiritualità e la religione?
«Il mio approccio verso la spiritualità è onnicomprensivo. Tutto ha uno spirito, un’essenza! E questa è la mia ricerca. Riguardo la religione sono privo di atteggiamenti».
Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?
«Per me non esiste la contemporaneità nell’arte. Credo che il segreto dell’arte risieda nella sua atemporalità e nella sua autenticità. Non cercare di compiacere nessuno e ascoltare la propria voce interiore. Per questo la grande arte è perennemente attuale e contemporanea. Ciò a cui bisogna restare fedeli è l’emozione, lo spirito. L’arte è fuori dal tempo. Quale attualità o contemporaneità può avere ragione di El Greco, Caravaggio, Kandinsky, Klee, Mondrian, Rothko, ecc.?».
L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del covid-19 quale riflessione ti ha fatto maturare sul tuo lavoro artistico, sul tuo ruolo d’artista, sul senso dell’arte e della vita più in generale?
«L’arte va al di là di qualsiasi emergenza. Essa è un’esigenza esistenziale profondissima sia per chi la crea che per chi ne fruisce».
Come vedi il futuro?
«Non so quale sarà il futuro dell’arte contemporanea. Spero solamente che essa si riappropri del territorio dell’invisibile e del magico. Se lo scopo dell’opera è solo quello di destare meraviglia per la sua esecuzione, a mio avviso l’artista ha fallito. L’artista non lavora su ciò che vede, ma su ciò che deve accadere».
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È una bellissima intervista che riesce a dare il senso della grandissima bravura e unicità del Maestro Cesare Berlingeri.