L’Istituto Svizzero porta a Milano il gioco anarchico e grottesco di Monster Chetwynd

di - 30 Settembre 2024

Come performare un malinteso? Come si fabbrica il gioco di messinscena? Le teche della mostra Zuul raccolgono fanzine autoprodotte e testi che riflettono sulla “distruzione” come gesto agito contro le convenzioni dell’architettura e le speculazioni capitaliste. Gli edifici utopici e gli spazi fantastici in stile cyberpunk diventano la scenografia di una performance giocosa e autoironica, ammasso di corpi umani e creature mostruose, tra cui l’artista stessa, che sorride maliziosamente verso il pubblico accalcato per vedere cosa sta per succedere. Un glamour sporco, in piena fashion week, che diventa conversazione provocante e grezza di costumi, maschere e impazienza.

Essere Chetwynd vuol dire mantenersi tenacemente irriverente nei confronti di un sistema, sia esso sociale, politico o artistico, e performare nei suoi teatri metropolitani temi complessi con un approccio leggero e umoristico. L’artista ha cambiato il suo nome in Alalia, poi Spartacus, Marvin Gaye, ora Monster, perché «the name is a private joke, a starting point for real humor». Quella di Chetwynd non è solo una proposta artistica ma uno stile di vita non convenzionale e decisamente in controtendenza. Diva eccentrica ma non egocentrica, stravagantemente onesta, non sopporta le persone depresse e tende sempre all’eccesso, all’estremo. Da Londra a Zurigo, background in antropologia sociale e storia antica, è cresciuta in roulotte, padre ex soldato e capitano e madre, Luciana Arrighi, regista vincitrice di Oscar. Le è stato insegnato a fare quello che voleva, «perché nessuno potrà fermarti». Nel 2012 con Odd Man Out Chetwynd è diventata la prima artista performativa a essere nominata per il premio Turner. Tra regia e teatro, i suoi lavori riflettono una natura che è rapporto tra caos, violenza e gioco, in rituali arcaici simili a carnevali colorati e liberi dai rigidi confini della galleria. Sguardo ambientalista, queer e harawayano, il suo fare è riconoscibile per la forte estetica do-it-yourself e la qualità grottesca e puerile.

Di cosa siamo affamatə, sempre, in continuazione? Questo ci chiede la Fact Hungry Witch in Who Named the Lily, cortometraggio del 2023 che riassume l’estetica dell’artista. Anche all’Istituto Svizzero, l’iconografia attinge dal cinema dei B movie (i “random mainstrem movies”, come Chetwynd li definisce), dalla televisione, dalla letteratura di consumo, dalle subculture e dalla mitologia classica, creando un dialogo tra alto e basso. Questo approccio rispecchia una riflessione più ampia sul modo in cui la cultura contemporanea è un miscuglio caotico di riferimenti e significati, in cui le gerarchie tradizionali vengono scardinate. David Copperfield, William Blake, Levi Strauss, Meatloaf, Brecht, la comicità dei fratelli Marx, Mae West, alcuni dei riferimenti che Chetwynd ricompone in un’estetica che rifugge il bello, il composto, il buon gusto.

Lo spazio di Istituto Svizzero, fino agli anni ‘50 il più alto grattacielo di Milano, accoglie una performance in 4 atti che richiama il caos delle ballroom, i costumi luccicanti della scena queer e il momento di pura gioia della musica hyperpop industriale: una TAZ di corpi liberi. La dimensione partecipativa della serata ricade nel suo opposto, l’antitesi della ritualità: deconcentrazione, anarchia, astrazione – la quarta parete non solo non esiste, la distruggo -. I costumi dei dieci performer provengono da un negozio del quartiere Langstrasse di Zurigo, dove si incrociano lavoratrici e lavoratori del sesso e il pubblico della vita notturna. Negozio chiamato Aelita, a sua volta titolo del film sovietico del 1924 Aelita queen of Mars tratto da romanzo Tolstoj, in cui la misteriosa regina marziana Aelita tormenta i sogni del protagonista umano, che la raggiunge su Marte scoprendone la società opprimente e schiavista del pianeta.

Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem

Una serata con Gozer il Distruttore

Code di drago e serpenti, calze a rete e trucco sbavato, un ammasso di fotografi e videocamere su un tappeto bianco e nero, carta dipinta e lattice. L’artista compare con una tuta rosa scintillante e performa con i e le ragazzə.

I momenti dell’azione non seguono una logica lineare, sono assemblaggi di frammenti, ad evocare l’idea di collage visivo e narrativo: le scenografie di cartone riprendono la Torre di Babele in Metropolis di Fritz Lang del 1927 (simbolo del potere economico e tecnologico della classe dirigente) e le architetture utopiste dei primi anni ’80. Come nel montaggio delle attrazioni del primo cinema muto, il caos ha scopo emotivo e non narrativo: nel film Intolerance del 1919, tra le ispirazioni dichiarate dall’artista, Griffith monta parallelamente quattro storie di intolleranza ambientate in un lasso di tempo di circa 2500 anni. In un atto, tematizza la monumentale e drammatica caduta del muro di Babilonia e il Tempi di Marduk, la fine della potenza dell’antica città per colpa dell’intolleranza e della violenza.

La riedificazione possibile solo dopo aver distrutto tutto. Gozer (da cui il titolo della performance) è una divinità, venerata da diverse civiltà del passato, che viaggia tra le dimensioni per distruggere mondi. È così chiamata l’antagonista principale del film Ghostbusters del 1984 di Reitman, una potente entità interdimensionale in grado di manifestarsi in varie forme fisiche e causare devastazione su larga scala. Nel film, Gozer tenta di tornare sulla Terra per distruggerla, sfruttando la piramide di Gozer costruita dal folle architetto e cultista Ivo Shandor. Sebbene non sia visibile chiaramente nel film, la Piramide è un concetto centrale: è in realtà la sommità del grattacielo al 55 Central Park West, un palazzo fittizio nel cuore di New York, un portale interdimensionale costruito seguendo i principi esoterici per entrare nella “vera realtà”. La piramide diventa una metafora architettonica archetipica per descrivere il vertice del controllo, la sommità della stratificazione sociale che va effettivamente “scalata” per non soccombere al potere. Nelle fanzine distribuita in sala, autoprodotte dall’artista, sono ripresi i collage e le immagini del cinema di Land, le architetture utopiche e pezzi di saggi. Patchwork tra set cinematografico e fashion show, la proposta di Monster è un gioco di sguardi, gesti apparentemente non coreografici, una sorta di sfilata punk e sporca di umani e non umani a tratti sensuale, un gioco semi seria su un palco che non è palco. La scenografia di cartone viene spostata in mezzo e sopra al pubblico, costretto a spostarsi goffamente per lasciare libero lo spazio. Siamo ingombranti, diamo fastidio?  Sta suonando l’allarme antincendio: ma è parte della performance? Qualcuno lo deve spegnere? I performer e i mostri escono poi dalla sala e occupano gli spazi esterni facendoli letteralmente esplodere con micce a forma di macchinine.

Durante l’azione, vengono letti con voce distorta brani da Unbuit di Christopher Beanland e di Lebbeus Woods, architetto e disegnatore: «Edificare è l’atto politico che cambia le condizioni di vita. L’architettura e la guerra non sono incompatibili». La mostra si incentra sul tema delle architetture radicali e utopiche, parte di un futuro che, in effetti, non sta mai arrivando. Monster guarda all’ottimismo architettonico di Geoffrey Bawa, Le Corbusier, i grattacieli di Frank Lloyd Wright e Archigram, progetti che sono rimasti solo disegni. Strutture utopiche come il grattacielo di Frank Lloyd Wright, l’enorme monumento sferico di Étienne-Louis Boullée per Isaac Newton, i piani urbanistici di Le Corbusier, i «grattacieli orizzontali» di El Lissitzky o la Walking City e la Plug-In City di Archigram, fino alle città galleggianti, il teletrasporto e razzi: voli di fantasia che non potevano essere realizzati e in altri casi strutture di prova.

Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem

Zuul – la mostra

Zuul, che titola la mostra, è il nome delle entità sovrannaturali che prendono possesso di Dana Barrett in Ghostbusters: si parla dunque di inevitabilità cosmica, sulla sia di Douglas Adams, di narrativa speculativa il cui nucleo filosofico mescola fisica a paranormale, spiritualità e minacce apocalittiche veicolate da una tecnologia distopica. Inoltre gli Zuul sono creature senza sesso, incarnazione di un sentimento anarchico e antiborghese di sembianza e pronome femminile. La mostra nasce da equivoco: secondo l’interpretazione dell’artista, le scenografie di Babilonia nel film Intolerance di Griffith erano state costruite da artigianə e architettə italianə che, una volta rientratə in Italia, hanno ispirato la realizzazione del Quartiere Coppedè a Roma. Il quartiere rappresenta un esperimento urbanistico eclettico che fonde stili diversi, barocca e riccamente decorata. Dimensione surreale scelta da Dario Argento come ambientazione per Inferno – film di occulto, stregonerie, allucinazioni – e L’uccello dalle piume di cristallo. Da questo misunderstanding nasce la fascinazione per le architetture che diventano metafore di costruzione fisica e psicologica della società, astratti e ideologici, “mutazioni del mondo costruito”.

Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem
Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem

An Evening with Gozer The Destroyer non è qualcosa di facile da performare e da raccontare.

L’estetica grottesca, ludica e anarchica di Monster è solida, ma tra improvvisazioni e script oscuri mi chiedo se il contenuto concettuale sia sufficiente a far stare in piedi la mostra in autonomia, una volta spenta la musica. Mi domando, inoltre, fino a che punto sia necessario il (ri)utilizzo della scena queer e delle ballroom, simbolo di resistenza identitaria, nel contesto normalizzato dello spazio espositivo contemporaneo, che rischia talvolta di depotenziarne gli assunti. È altresì vero che lo sfarzo eccentrico degli abiti dei performer non è abito di scena, ma coreografia del quotidiano vissuto, seppur in mostra non ne rimanga traccia. Tolto l’aspetto performativo rimane esposta la scenografia abbandonata, a terra come uno scheletro inanimato e i costumi di scena: bastano questi a restituire il senso complessivo del progetto? Senza l’artista, e senza pubblico, dove si sposta la “distruzione”?

Siamo chiaramente davanti a temi come l’identità di genere e la critica sociale e culturale verso il capitalismo corrotto, che non cadono nel solito trito didascalico, nella trappola della retorica. Forse allora, il momento più prezioso è stato quello dell’appena prima e appena dopo l’azione, il parlare con amici e colleghi prima di entrare, bere un bicchiere insieme ai performer già agghindati, l’attesa e l’ingresso in sala, la calca, il caldo e la voglia di ballare. È stato l’artista che ci ha sorriso, a volte mostro a volte strega, mentre sfilava oltre la passerella temporanea. Tutto era one-shot, agito ma non improvvisato, Monster dava istruzioni sul momento ai e alle ragazzə, rendendoci parte della prova di un grande spettacolo che non è spettacolo, un backstage non finito, come fossimo lì per sbaglio. Cosa era finzione, e cosa era reale allarme antincendio?

Chetwynd ci lascia credere quello che vogliamo dalla nostra privata prospettiva, in un entusiasmo immotivato ed effimero, esattamente come avviene la mattina, dopo una notte al club. Ciò considerato, le idee di un musical in medias res e di una scena teatrale sull’atto del farsi come convivono con lo spazio istituzionale e il clima del clubbing? Il tutto si fonde in una serata definitivamente convincente?

Un performer mi si avvicina, mi offre una sigaretta.

Cosa abbiamo visto? Perché?

Facciamo esplodere dei petardi!

Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem
Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem
Monster Chetwynd, Zuul, installation view at Istituto Svizzero, Milano, 2024. © Giulio Boem

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