Lo spazio e il tempo come concetti relativi, determinati dalla percezione e dall’esigenza umane e perciò estendibili o comprimibili a piacimento. È quanto rivela con la sua ricerca, condotta con un alto grado di coerenza e rigore da oltre mezzo secolo, Maurizio Mochetti (Roma, 1940), protagonista di un’importante mostra, “Lo spazio, il vuoto, l’orizzonte”, alla Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a mare, a cura di Antonio Frugis e Marco Tonelli.
È l’incipit di un progetto espositivo più ampio intitolato “Confluenze”, fortemente voluto dal direttore Giuseppe Teofilo e dal presidente della Fondazione pugliese Stefano Zorzi, che ambisce a ripercorrere le vicende creative degli artisti che, nel corso della loro carriera, hanno incrociato la vita, la storia e l’opera di Pino Pascali, a cominciare proprio dai vincitori delle edizioni storiche del Premio a lui intitolato, tenutosi dal 1969, l’anno seguente la sua prematura scomparsa, al 1978, anno dell’ultima edizione vinta da Kounellis.
Si inizia con Mochetti che si aggiudicò il premio proprio alla prima edizione, in un momento in cui era poco più che un esordiente, subito dopo la personale alla galleria La Salita di Roma. Da allora l’artista ha compiuto molta strada imponendosi sullo scenario artistico internazionale come uno dei più raffinati artisti contemporanei italiani, con sei inviti alla Biennale di Venezia, dal 1970 al 1997, opere e mostre in molteplici istituzioni e musei del mondo, dallo Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven alla Biennale di San Paolo, dal Maxxi di Roma al Tel Aviv Museum of Art.
A 54 anni dal premio la Fondazione polignanese ne omaggia il lavoro esponendo dieci lavori (nove in Fondazione e uno in Exchiesetta, nel centro storico di Polignano, prima sede del Premio) capaci di ripercorrerne la carriera e soprattutto di precisarne la complessa ricerca. Lo abbiamo incontrato, per ascoltarla direttamente dalla sua voce.
Hai dichiarato che “ogni artista ha un verme che deve tirar fuori”. Qual è quello di Maurizio Mochetti?
«Ognuno ha domande che si fa per tutta la vita, domande a cui tenta di dare una soluzione, un significato. È questo il mio “verme”. Quesiti che non trovano soluzioni, ma per rispondere ai quali ho studiato tutta la vita raggiungendo un certo grado di conoscenza».
La vittoria della prima edizione del Premio Pascali si colloca tra la tua prima personale, alla galleria La Salita di Roma, curata da Marisa Volpi, e il primo invito alla Biennale, nel 1970. Che ricordi hai di quel momento?
«Era il 1969. Il Premio consisteva in 200 mila lire. Mi fu consegnato da Argan a Roma, in Piazza del Popolo. Ne fui molto contento, innanzitutto perché ero molto amico di Pino e poi perché ero lusingato dal fatto che avessero scelto me tra molti artisti talentuosi come Vettor Pisani e Jannis Kounellis, che pure hanno vinto il Premio, ma nelle edizioni successive».
Per te “l’idea non è perfettibile ma la tecnologia sì”. Come definiresti il rapporto tra arte e tecnologia?
«La tecnologia c’è sempre stata, non è una peculiarità del presente come erroneamente si crede. Il martello e lo scalpello di Michelangelo per l’epoca erano la tecnologia massima. Sono sicuro che se avesse avuto il laser certamente lo avrebbe usato. Ciò che conta nell’opera d’arte è l’idea ma come realizzarla è sempre perfettibile. La tecnologia è il mezzo per rendere tangibile un desiderio e concretizzare un’idea. Non posso raggiungere la Luna a piedi o in auto, necessito di un razzo. Per un musicista lo strumento rende possibile la sua arte ma non è l’arte stessa. Senza lo strumento non potrebbe suonare certo, ma ciò non toglie che esso sia il mezzo e non il fine. Oggi però la tecnologia è esaltata fuori misura, tendendo sempre più a coincidere con l’opera stessa, che invece è altra cosa».
La tecnologia è crescente nell’attività artistica. Tu che idea ti sei fatto sulla recente produzione di NFT?
«La tecnologia è sempre esistita è il suo impiego nell’arte è un dato da sempre presente e inevitabile. Tuttavia le nuove ricerche a cui fai riferimento io nemmeno le conosco. Ne ho sentito parlare ma non è detto che io le consideri arte. La tecnologia deve servire all’arte che però, a mio avviso, è importante si mantenga come manifestazione concreta».
Hai ribadito in più occasioni che nel tuo lavoro l’idea è centrale ma allo stesso tempo hai precisato che la tua non è arte concettuale. Potresti spiegare meglio questa distanza?
«Ritengo che l’arte concettuale afferisca più alla letteratura che non alle arti visive. L’arte concettuale non avvertiva il bisogno di trasformare l’idea in un oggetto. Io invece cerco sempre di dare un’immagine concreta all’idea».
Spesso, riguardo al tuo lavoro in sede critica, si è insistito sull’idea di futuro. Ma qual è il tuo rapporto con la storia dell’arte e più in generale con il passato?
«Credo che la storia dell’arte vada conosciuta ma ritengo anche che l’arte debba arrivare a tutti e non solo ad una élite preparata e pronta a recepirla. L’arte deve generare in ciascuno delle domande. È come quando incontri una persona e questa, per un motivo inizialmente inspiegabile, ti colpisce. Hai voglia di conoscerla meglio per capire perché ha generato in te quella reazione. L’arte per me è un linguaggio che deve innanzitutto incuriosire. Quando si entra in un museo un’opera ci colpisce più di altre. Non posso dire di conoscere quell’opera eppure questa mi ha colpito ed io sento la necessità di capire il perché. L’arte deve catturare la mia attenzione e questo è essenziale per entrare nell’opera. Non è detto che chi sia colpito dall’opera poi voglia realmente approfondirla ma è importante che essa si sia imposta alla sua attenzione. La relazione che si crea con l’opera è fondamentale mentre l’oggetto in sè conta poco se non niente in arte. È un altro strumento che serve per raggiungere l’idea. È come nelle scatole cinesi: la tecnologia consente di concretizzare l’oggetto e questo a sua volta di entrare nell’idea».
Qual il ruolo del pubblico nel tuo lavoro?
«Ogni artista vero sa di lavorare per l’uomo. Lavora per dare a chi guarda degli occhiali differenti dai precedenti. Come la scienza, che dà teorie che soppiantano o perfezionano quelle precedenti, anche l’arte è in continua evoluzione. Io non lavoro per il pubblico ma per l’uomo, che liberamente sceglie di entrare e comprendere la mia opera».
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