Carlo Benvenuto, L’originale. Perché le sue opere non hanno bisogno di manipolazioni, modifiche, postproduzioni: sono quello che sono, si raccontano da sé e questo deve bastare.
Siamo a Rovereto, in un’estate che sentiamo più che mai sulla nostra pelle. Dopo mesi di isolamento forzato, giornate lente, infinite, quel treno da Milano sembra correre più veloce. Il MART è lì ad aspettarci, con la sua grande cupola di vetro e acciaio che ci ripara da un’inaspettata pioggia estiva.
Varcare la soglia della mostra è come entrare in un quadro di Piero della Francesca, dove tutto è immacolato, preciso, calcolato al millimetro. C’è una geometria, quasi un ritmo che domina lo spazio e fa eco alle foto in scala 1:1 che sfilano sulle pareti. Sono ben distanziate, proprio come noi. Carlo Benvenuto (Stresa, 1966) è lì a guidarci, a raccontare una storia lunga più di 20 anni, frammentata in circa 60 opere che racchiudono una quotidianità sospesa e mai banale, solo straordinariamente ripetitiva.
Ci sono Casorati, Gnoli, de Chirico, Morandi nei suoi lavori; e poi nulla di tutto questo in realtà, perché Benvenuto – l’originale – non dipinge (non solo), ma fotografa, e di sicuro non si limita a scattare. È un architetto della fotografia analogica, costruisce la realtà e associa cose per restituirle esattamente come le ha viste lui, in quell’attimo, con quella luce, senza inganno. Fa di tutto – è questa l’impressione – per evitare il linguaggio fotografico: toglie le ombre, lascia emergere i segni del negativo, imprime un senso di lentezza sulle sue opere, quasi l’immobilità che ci aspetteremmo da un quadro.
Più che una fotografia, in effetti, sembra di contemplare un dipinto iperrealista, una natura morta studiata in ogni dettaglio, in posa su un tavolo e appiattita sullo sfondo. Nelle opere di Benvenuto, però, non ci sono solo composizioni di frutta e di fiori, ma anche specchi, bicchieri, tazze, tappi di biro, candele, chitarre, oggetti di una vita che restano zitti, in un dialogo che è solo figurativo. Tutto, in mostra, è autoritratto dell’artista, ogni sala immortala gli oggetti che hanno attirato la sua attenzione, li unisce, li fa scontrare, in un ordine che non è cronologico, ma sempre mentale. In questo turbinio di associazioni metafisiche, anche le didascalie sono mute, senza titoli da leggere o interpretare: l’opera è quella che si vede, l’originale, non ci sono parole da aggiungere.
Non solo fotografie, però. Nel percorso espositivo ci imbattiamo anche in sculture e in immagini dipinte, ma l’effetto è sempre lo stesso, quell’impatto straniante che sembra ridurre gli oggetti a semplici cose che non sappiamo più chiamare per nome, ma soltanto accostare tra loro. Tutto è autoritratto dell’artista, si diceva, dai bicchieri su una linea invisibile agli specchi che non riflettono. Ma non basta: Carlo Benvenuto sceglie anche tre opere della Collezione del MART, gli autoritratti di Giorgio de Chirico, Renato Guttuso e Giorgio Morandi; e compare lui stesso in un unico dipinto che sembra attivare un infinito gioco di sguardi, con le opere della mostra e con noi, che ci perdiamo tra i suoi riflessi.
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