L’Ospite. Luca Caccioni, Luigi Carboni, Giuseppe Stampone – Otto Gallery

di - 8 Novembre 2020

Alla galleria Otto di Bologna è in corso una mostra che a suo modo interviene nel dibattito contemporaneo che vede una rinnovata attenzione nei confronti dei media tradizionali e in particolare del medium a lungo e anche storicamente privilegiato della pittura. Lo fa riproponendo due cavalli di battaglia della galleria come Luca Caccioni (1962) e Luigi Carboni (1957) e un termine medio – mediatore, L’ospite del titolo, che è Giuseppe Stampone (1974). Ad ognuno è dedicata una stanza, con incursioni e contrappunti di Stampone in ognuna, che esprime in maniera meditata e programmatica le diverse sensibilità e intendimenti degli artisti. Nella prima, Caccioni si misura con una tecnica inedita e difficile quale la pittura ad olio su alluminio, una superficie che non assorbe il colore e che misura la pazienza del pittore impegnato a stendere innumerevoli mani di pittura dai toni cinerei, ocra e azzurri ambrati, tono su tono, che appartengono tutti alla grande tradizione bolognese descritta magistralmente dalle epopee di Lorenzo Longhi e Francesco Arcangeli. Sembra di entrare nella storia della pittura bolognese “Da Cimabue a Morandi” distillata e riproposta nella sua quintessenza attraverso le pennellate trasparenti di Caccioni. Quel depositarsi dei secoli nella pittura si raddensa per forza di cose in un segno che appare scuro dallo sfondo, sembra un naufrago sopravvissuto al paziente lavorio di scrematura, di quel fare per via di levare (con l’aiuto di un pezzo di cotone egiziano) del pittore. Quel segno scuro deve esistere come traccia di un gesto, come affermazione che sopravvive ai secoli e come segno di una soglia che frana al confine tra il visibile e l’invisibile, questa la funzione della pittura secondo Caccioni. Quelle terre e quelle essenze su cui si è stesa la polvere del tempo indicano poi, ineliminabile nell’artista, un’urgenza che lega l’arte ad una dimensione più vasta di natura culturale e antropologica. Vi è la volontà di appropriarsi degli antichi gesti, del sapere legato alle cose e alla dimensione artigianale, a ciò che sta scomparendo con una velocità siderale e che la pittura sembra volere invece richiamare ed imbrigliare tra le sue accorate pennellate, lasciate evidenti onde evidenziarne il lento processo.

Luca Caccioni, Ibisco e dita, ( burle e marx garden ), 2020, olio su alluminio, cm 80×80

Nella seconda sala l’universo pittorico di Carboni si riappropria dei colori stesi in larghe campiture uniformi, decise e squillanti anche nei rosa cipria, nei rossi – fucsia, nei bianchi abbacinanti, che costituiscono il timbro dominante e quasi totalizzante dei quadri, questa volta non più degli equilibrati quadrati come in Caccioni, ma svettanti e verticali. Il segno è riportato alla sua origine intuitiva, veloce, irresistibile di scarabocchio, all’origine dell’idea, al progetto, ma anche al suo essere scrittura automatica e semplicemente riempitiva. Infatti percorre il quadro, lo segmenta o ne riempie furioso delle porzioni. Accenni di figurazioni aggallano, ma sfigurate, semicancellate, quasi che l’artista si divertisse a giocare sul limite degli stili come un consumato equilibrista. Mi viene in mente il collage camuffato di De Kooning e anche i suoi colori squillanti, da tabloid lucido e patinato. Ma lì la scorza della pittura aveva subito come un decollage, in Carboni il disegno sovrasta spesso la pittura, la percorre in superficie, è dato per addizione e non per sottrazione, come la pittura nelle campiture libere. Talvolta il segno si regolarizza e appaiono dei cerchi perfetti, sopravvivenze del percorso dell’artista giusto antecedente a questo. A tal proposito, ma anche qui, il pittore non disdegna di evocare il “fantasma del decorativo”, il gusto per il disegno nella sua valenza di decoro, di consumata maestria, di pratica anche artigianale, di paziente intarsio delle superfici. Ancora il tempo, protagonista, dilatato o accelerato nel processo dell’artista.

Luigi Carboni, Ridisegnare, 2019. Acrilico e olio su legno, 160×114 cm

Infine Giuseppe Stampone, depone strato su strato di velature, ma fatte (quasi) sempre con la penna bic, il mezzo della scrittura o al massimo dello scarabocchio, piegato concettualmente al fare lento e dilatato e quindi concettuale della pittura. I quadretti sono piccoli, da prezioso boudoir, e come quello sono pieni di simboli che richiamano l’erotismo dell’immagine e l’insistenza sullo sguardo del Surrealismo. E come quest’ultimo il quadro costituisce quasi un rebus composto di immagini iperrealistiche, perfette in maniera quasi maniacale. I quadri sono sovraccarichi di citazioni che pescano a piene mani dal passato rimescolato con fatti del presente. L’artista infatti è fortemente impegnato sul fronte della denuncia di eventi della contemporaneità e mescola la pratica del disegno con arte pubblica, collaborativa e performativa. Per la mostra appronta anche un disegno, un gioco concettuale che richiama con una doppia piramide lo statuto della prospettiva, che – afferma Stampone – costituisce il mezzo con la quale unifico i diversi tempi della storia e della visione. Davanti al disegno, un antico banco di scuola elementare, dotato di lavagnetta, si riferisce alla didattica, all’abbecedario, alla scuola. Non so, ma – oltre ad essere un ulteriore gioco concettuale – sembra evocare la polemica sui banchi di scuola che ha riempito la nostra noiosa estate tra un’ondata e l’altra di Covid.

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