A Milano, alla Fondazione Marconi, è in corso la mostra “Out Of Order”, dedicata ai collages di Louise Nevelson, mentre a Venezia la scultrice ucraina nata nel 1899 e scomparsa nel 1988, naturalizzata statunitense, presenta il potente assemblage Homage to the Huniverse (1968) all’Arsenale in occasione della 59° Biennale a cura di Cecilia Alemanni, ispirato all’Espressionismo astratto e all’attrazione del Color Field per le vaste campiture di colore, con uno strato uniforme di vernice nera opaca, frequente nelle sue opere.
Non si può perdere per cogliere l’unicità della sua arte del riciclo di materiali di scarto raccolti dentro e fuori gli ambienti del proprio vissuto, la grande retrospettiva ospitata nei Saloni delle Procuratie Vecchie affacciati su piazza San Marco (aperti per la prima volta dopo 500 anni). In questi imponenti spazi completamente ristrutturati dall’architetto David Chipperfield, la mostra “Persistence” a cura di Julia Bryan–Wilson docente di arte moderna e contemporanea a Barkeley, ideata in collaborazione con la Fondazione Louise Nevelson presenta oltre sessanta opere che trasudano di una misteriosa energia.
Sono universalmente note le opere della scultrice nata a Pereiaslav, vicino a Kiev di umili origini, emigrata negli Usa nel 1905, che nel 1962 fu scelta per rappresentare gli Stati Uniti alla 31° Biennale di Venezia, che si concentra sulla potenzialità dell’assemblage che richiamano l’idea del totem e della metamorfosi dei corpi. In questi saloni, grandi e piccole opere, viste oggi nel vivo della guerra che affligge l’Ucraina, sono giganteschi scrigni della memoria trafiggono l’anima, abbracciano trent’anni di lavoro e di abilità compositiva di combinare diversi materiali, passando dalle celebri monumentali sculture nere da muro, ma anche i meno conosciuti collage; il tutto esposto seguendo una traccia non cronologica. Trasudano di misteriosa enigmaticità i suoi monumentali “neri”, bianchi e oro, tra le altre si distingue Moon Spikes (1953), un’opera giovanile, dalla superficie monocroma dipinta di nero che prelude il suo riconoscibile modus operandi, sviluppato anche nelle opere successive.
I materiali per Nevelson sono texture per variare possibilità combinatorie, lo testimoniano i più piccoli collages in una gamma di colori realizzati con materiali quotidiani come carta da giornale, pezzi appiattiti di metallo, cartone, alluminio, carta vetrata e tessuti. Ogni sua opera è una prova di una tensione formale straordinaria, in cui s’intrecciano cubismo, dadaismo, surrealismo e minimalismo e rivelano una inventiva irripetibile come si vede nei collages polimaterici dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. Testiere in legno, gambe di sedie, tavolette del water e altri materiali ‘poveri’ non convenzionali, spesso recuperati da mucchi di rifiuti, combinati insieme si rigenerano e trasfigurano nelle sue opere cariche di diversi significati, rimandi politici e sociali oltre che formali.
Oltre ai suoi ambienti apprezzati anche dallo scultore svizzero Alberto Giacometti, che li considerava la parte più impressionate della Biennale del 1962, non passa inosservato un collages senza titolo del 1985, in cui la Nevelson prende una scopa e una paletta e li ha fissati fondo nero. Questi strumenti riconoscibili di pratiche femminili implicite nel lavoro domestico, frustrante e non retribuito, qui si trasfigurano in una composizione ‘altra’, trascendono la quotidianità del femminile, in cui il processo di lavorazione è parte integrante dell’opera dell’artista sempre contemporanea che ha dichiarato “ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia”.
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