Vi ricordate gli anni ‘90?
Forse vorreste dimenticarli o ricordarli meglio, poco importa, perché, inaspettatamente, sono tornati di moda. La galleria White Noise analizza questo fenomeno nella mostra Quello che non ricordi, diventi a cura di Eleonora Aloise, Carlo Maria Lolli Ghetti e Chiara Garlanda.
Protagonisti due artisti: Luca Grimaldi e Fabio Ranzolin, specchio di generazioni diverse di una stessa epoca.
La riflessione proposta riguarda la cosiddetta “generazione perduta”, termine reso popolare da Ernest Hemingway in Fiesta Mobile, coniato come definizione da Gertrude Stein. La scrittrice utilizzò l’espressione per riferirsi a quei giovani diventati adulti negli anni ’20 del 1900 i quali, cresciuti a cavallo del cambio di secolo, avvertirono lo spaesamento che comportò questo passaggio.
Come gestire questa sensazione disorientante?
La soluzione fu quella di consolarsi con il rimpianto per il decennio precedente.
Se i ragazzi di inizio XIX secolo trovarono rassicurazione nella fine del 1800, oggi i millennials sembrano aver trovato conforto negli anni ’90.
Ma smascheriamo questa consolazione: i raggianti anni ’90, non sono altro che un ricordo fittizio perché, come tutte le epoche, hanno il loro lato oscuro.
Ad animare la mostra ci sono Luca Grimaldi e Fabio Ranzolin.
Gli artisti propongono versioni diverse dello stesso periodo storico, sottolineando i dettagli rimasti impressi in base a come e quando questa epoca è stata vissuta.
Luca e Fabio, infatti, appartengono a due generazioni: il primo ha vissuto appieno gli anni ‘90 in un’età più consapevole. Il secondo, invece, può solo rievocare vagamente quegli anni, coincisi con la sua fase di crescita.
Ad accogliere il visitatore c’è una parete tappezzata di manifesti, si tratta di Orphans of great promises, di Ranzolin. Un collage digitale fatto di luccichii, figure patinate e una grafica old fashioned che evoca i manifesti dei nightclubs gay. L’immagine racchiude nel titolo la consapevolezza di una realtà amara: quelle grandi promesse di spensieratezza non sono state mantenute.
Accanto a questa opera, Luca affianca un pacchetto di gomme da masticare Brooklyn in larga scala, intitolandolo Le Grandi Opere. Il suo linguaggio ironico si aggiunge al dialogo con Fabio, che continua il discorso con Sweet pours like applause. L’istallazione si compone di tubi che attraversano l’altra stanza ma rimangono intrappolati in un circuito chiuso. In questo canale senza via d’uscita scorre un liquido azzurro che rimanda al noto cocktail Angelo azzurro. Negli anni ’90 questo colore sgargiante ci è stato proposto in diversi prodotti, attraendoci con la sua vivacità, ma facendoci trascurare il suo aspetto insano. Quei coloranti che finora abbiamo ingurgitato a tradimento, non sono altro che l’aspetto di un’epoca di facciata festaiola ma falsamente incantatrice.
Il condotto venoso ci porta nell’altra sala, in cui Luca Grimaldi raffigura i protagonisti di questo scenario: Campione (I,II,III).
Nelle tre opere monumentali, l’artista rappresenta con finitezza di dettagli figure in posa, senza mostrarne le facce, ma soltanto le loro gambe, immobili e in attesa. L’unico dettaglio che potrebbe farci identificare questi individui è il loro stile. Ma gli abiti che indossano potrebbero essere quelli di una persona del passato così come di una dell’epoca attuale. Si svela così l’incoerenza del revival che annulla l’autenticità della nostra generazione, priva di un proprio valore identitario.
A concludere lo scenario, Luca ci consegna un’altra installazione. Innumerevoli sigarette giacciono a terra, sul posacenere, su una nicchia … Questi mozziconi sono il simbolo di un vizio indispensabile a riempire quell’attesa ossessiva per qualcosa che ancora non è arrivato.
Nell’ultima sala ritorna l’azzurro acceso in Un saluto a chi c’è stato e un saluto a chi è tornato.
L’opera di Fabio è un altare adornato con oggetti banali: goleador, ciondoli di metallo e gel per capelli.
Elementi che appartengono a riti giovanili vengono osannati con una frase che ricorda quelle dei vocalist delle discoteche dell’epoca. La celebrazione di questi oggetti ci dimostra che gli adolescenti di oggi non sono in grado di creare dei propri codici, poiché quelli che possiedono appartengono a mitologie del passato.
Disillusi, idealisti, esaltati, ma bloccati in un tempo incerto, pieno di sfiducia nei confronti del sistema di cui facciamo parte. Questo ora siamo.
Abbiamo un livello di istruzione superiore rispetto alle generazioni precedenti, ma restiamo vittime di un tasso di disoccupazione che ci rallenta il passaggio verso l’età adulta.
Ci mascheriamo spavaldi dietro al nostro look vintage, ascoltando musica pop anni ‘90, senza sapere dove stiamo andando, aggrappati alla mitizzazione di un revival che nemmeno abbiamo ben chiaro.
Come nella mostra precedente, White Noise conferma la sua intenzione di riflessione, utilizzando la spensieratezza di fin du siècle come espediente per rivelarci una situazione sociale.
Mentre si viveva lo sfavillio degli anni ’90, non si percepivano gli effetti collaterali di quel decennio, allo stesso modo, oggi non riusciamo ancora a percepire in cosa, davvero, siamo dentro.
Forse lo capiremo solo quando questo presente, visto da una prospettiva lontana, apparirà con i suoi pregi e non con i suoi difetti.
E così, rimanendo fedeli alle regole prevedibili dell’eterno ritorno, sorgerà quella nostalgia per un tempo considerato migliore solo dal nostro futuro.
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