Della Casa Rossa di Alberobello vi avevamo già parlato quando l’organizzazione itinerante dell’Apulia Land Art Festival è approdata dalla VI edizione 2018 in Valle d’Itria: casa realizzata alla fine del XIX secolo dapprima con destinazione di scuola e poi di convitto, e dal 1940 al ‘49 divenuta campo di concentramento. Qui furono deportati cittadini stranieri e internati donne, bambini e “displaced persons”. Campo di internamento, dunque, ma anche di transito, confino e prigionia per profughi sino alla metà degli anni Cinquanta, quando è tornata “casa” di rieducazione minorile maschile, sino a essere abbandonata a fine anni Settanta. Dal 2007 la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia l’ha dichiarato bene di interesse storico-artistico sottoposto a tutela, e ad oggi è gestita dalla Fondazione Casa Rossa.
L’Associazione UnconventionART ha lavorato in questi anni in sinergia con la Fondazione per non disperdere la memoria di quanti l’hanno abitata, e così fino all’Apulia Land Art 2021 in cui Casa Rossa è stata residenza artistica di Iginio De Luca (Formia, 1966). Dal titolo “Se queste mura potessero parlare”, il progetto con la direzione artistica di Carlo Palmisano e la curatela di Giuseppe Capparelli è stato sostenuto dalla Regione Puglia e dal Teatro Pubblico Pugliese e presentata, accesa letteralmente, lo scorso 18 giugno. Si tratta infatti di un’installazione monumentale di luce intermittente che segue la sequenza in alfabeto morse di un frase, traduzione di segni e parole emerse dal confronto dell’artista con la comunità alberobellese in chiave poetica.
Abbiamo incontrato Iginio di ritorno dalla Puglia per commentare forme e funzioni di questa architettura parlante.
L’occasione che ti ha visto a lavoro con la Casa Rossa, carica com’è di simbologie e ambiguità, sembra esserti venuta incontro e abbinarsi alla tua ricerca… considerando l’interazione che hai creato con l’ambiente e con il pubblico. Quali messaggi ti sono arrivati a prima vista?
«Nella domanda parte della risposta, gli ingredienti relazionali del lavoro, le chiavi di accesso all’installazione: la vista e i messaggi, i bagliori e il morse, la scansione intermittente a ritmo sincopato, imprevedibile, che delega all’attesa il desiderio della luce.
Sono stati input silenziosi e stratificati, percepiti prima a distanza nel pensiero e confermati in presenza, nel riscontro dei sensi. La Casa mi è apparsa dalla strada, ieratica tra i cespugli, logora e fiera, rossa e carismatica, ancora viva, implorante. L’impulso categorico era rispettare questo silenzio che ha tanto da dire, non profanarne l’incanto con suoni estranei e invasivi, non intaccarne la sospensione metafisica nella sua immanente sacralità; una percezione umana più che architettonica, una presenza passionale che chiede aiuto, ascolto e attenzione, proprio come noi».
Quale è stato nei giorni di residenza il rapporto con quell’architettura senza uomini eppure così grondante di storie vive?
«Un rapporto basato sulla percezione, fisica e spirituale, un sentire globale che mi ha visceralmente coinvolto, uno scambio intenso, perturbante. “Spüren”, scritta in tedesco da Hakel nel suo diario alla Casa Rossa, è la parola con cui inizia la frase criptata e riassume poeticamente il senso di questo scambio. Un dialogo fatto di ossimori, di evocazione umana pur nella sua negazione tangibile, una presenza in assenza, parole mute fatte di luce, tracce e allusioni vitali in una sottrazione acustica stratificata che diventa spazio, fattore concreto che riempie ogni luogo, sale su per le stanze e i corridoi vuoti della Casa, sopra il tetto e nel cortile interno, lasciando libero ascolto al vento, agli uccelli e allo scuotersi degli alberi.
La Casa, come una persona, si nutre di sostanze biografiche ed emozionali, ha sedimentato nell’anima vite in bilico tra abbandono e prigionia, emarginazione, rifugio, sopravvivenza e rinascita in un cortocircuito incessante tra privato e pubblico, intimità e condivisione. Oggi esprime l’essenza di tutto ciò, ne è la diretta portavoce fronteggiando in maniera perentoria e ipnotica chiunque voglia interagire con Lei. Un confronto rischioso, un’empatia confidenziale azzardata potenzialmente fallimentare».
Nell’incontro con le voci degli alberobellesi hai avvertito una discrepanza rispetto alla narrazione di quel luogo altrimenti silenzioso?
«Le voci degli alberobellesi tradotte in impulsi luminosi sono state l’innesco umano e l’ingranaggio creativo che hanno ispirato il lavoro, una traccia corale straniante fatta di singole verbalità da me ri-assemblate che hanno acceso le luci e riattivato la Casa in una spontanea confluenza, e non discrepanza, tra Lei e le persone. L’idea è stata quella di affidare alla Casa stessa, come destinatario finale di queste soggettive pluralità, la possibilità di parlare e comunicare all’esterno, una regia espressiva avvistabile anche a distanza di chilometri nel cuore della notte pugliese; un filtro visivo a un principio vocale, una sintesi estetica a una densità tematica. Le parole donate mi hanno scortato alla Casa, un avvicinarmi permeabile e attento verso uno spazio magnetico, un’architettura di voci in triplice sintonia tra il luogo, le persone e me».
Nel racconto che se ne fa, in questa edizione 2021 di Apulia Land Art Festival rispetto alle scorse, della Casa Rossa è stato “alterato lo spirito accogliente e fraintesa l’anima nella sua naturale predisposizione al soccorso e alla protezione”. Dapprima, ai miei occhi di pubblico, l’edificio con tutto il suo portato storico era raccontato come orrifico… hai colto una volontà politica di valorizzazione? Un cambio di cifra nel tramandarne la memoria?
«Compito dell’arte è praticare e potenziare un approccio libero e autentico a un contesto importante e storico come questo, nelle profondità e urgenze delle sue letture distanti da stereotipi e da schiaccianti cliché identificativi. La memoria non ha esclusivamente desinenze passate, se accolta e metabolizzata può trasformarsi in una materia attiva, è calce viva, brace sotto la cenere. Felice che questo stia avvenendo alla Casa Rossa come spero in tanti luoghi d’Italia che hanno bisogno di cura, attenzione e spiriti visionari».
L’alfabeto morse è stato uno dei primi metodi di comunicazione a distanza, che tu traduci in luce con cui la Casa sembra parlare all’esterno, alla valle… luce che penetrando poi all’interno, ha illuminato la memoria e riacceso, seppur per una sera, la casa. Operazione che nella sua stessa natura intermittente on/off rispecchia il destino di quel posto. Pur trattandosi paradossalmente di un’esperienza visiva di tensione luminosa senza sonoro, immagino incida la tua attività di musicista e dunque il ritmo in questa scelta strumentale.
«Il ritmo scandisce la mia vita a tempo pieno, 24 ore su 24. Lo spazio e lo scorrere del quotidiano sono nevroticamente puntualizzati da un continuo e instancabile percuotere, un martellare ossessivo, una rivelazione acustica del mio pensiero su qualsiasi cosa possa emettere suono; una comunicazione in codice, cifrata, come il personaggio di “Zi Nicola” in una commedia di Eduardo che dialogava a ritmo sincopato di mortaretti esplosi su in soffitta. Un’intermittenza del vivere che fin da piccolo mi vede impugnare le bacchette dietro a una batteria gigante.
Da quel giorno pratico l’arte e la musica, contamino l’immagine con il suono e, contrariamente a quanto diceva mio padre: “Devi scegliere, o l’arte o la musica”, oggi non scelgo e convoglio nell’arte contemporanea ogni mia vocazione, convinto che tutti i linguaggi siano praticabili nel campo della ricerca creativa.
Un’ulteriore suggestione che mi lega intimamente a questo lavoro sono i fuochi d’artificio ascoltati da piccolo a letto per la festa di Sant’Erasmo a Formia; una sequenza notturna e rituale che univa ritmo e colore, gioia e meraviglia in un colpo solo. Mia mamma, osservatrice integralista di orari e prescrizioni fintamente salutari, mi negava, con mia grande disapprovazione, questa trasgressione dei sensi.
Dopo circa 45 anni, mortificazione e rabbia infantile vengono qui magicamente sciolti in un contesto che trasforma e sublima anche questi piccoli dispiaceri».
Per quanto l’installazione sia site specific, sappiamo che avevi intitolato anche altri progetti con la locuzione “Se queste mura potessero parlare”. Come si lega questa alle opere precedenti? Hanno tutte a che fare con il “concetto di casa”?
«Il video con lo stesso titolo fu proiettato prima nel 2005 alla Galleria Nazionale di Roma e poi installato nel 2008 al CIAC di Genazzano (RM) per la mostra “Daily Life”. Il lavoro consisteva in uno schema planimetrico che orientava a 360° una serie di mini-film girati in super 8 da famiglie italiane degli anni Sessanta, Settanta che io personalmente conoscevo. Il titolo del lavoro alludeva alla metafora comune che vedeva protagoniste le nostre pareti di casa trasformate in spugne visive, in contenitori di vita domestica e di memorie familiari, un concetto privato e autobiografico dell’abitare, un’area riservata deputata alla meditazione introspettiva. Dopo anni di Blitz e di esperienze artistiche, lo spazio domestico è diventato anche una questione politica oltre che privata, di responsabilità nazionali perché parla di rifugi, di asili contro la fame, storie estranee alla mia vita e forse per questo ancora più interessanti. La planimetria è griglia formale e simbolica che inquadra i volti, le figure, diviene salvezza e prigionia, forma geometrica che conferisce dignità e riconoscibilità sociale, emblema di soccorso e protezione, proprio come la Casa Rossa nell’arco degli anni».
In ultimo, ripercorrendo le fasi del lavoro dall’accensione all’elaborazione, è intervenuto il disegno. Che rapporto hai con il disegnare?
«Il disegno è alla base della mia formazione artistica e biografica, è il filtro autistico con cui guardo il mondo, l’architettura portante di ogni mio lavoro pittorico, video, performativo, fotografico o installativo.
In questo caso i disegni sono subentrati dopo, a giochi fatti, a partita finita! Sono motivo di contemplazione e non di progettazione, verificano a penna il senso estetico dell’installazione, la prova del 9 pratica, un souvenir analogico sul lavoro effimero, tecnologico».
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