Focus su Sam Szafran, pittore fulminante, da scoprire all’Orangerie di Parigi

di - 22 Gennaio 2023

Al Musée de l’Orangerie di Parigi è andata in scena “Obsessions d’un peintre”, una mostra dedicata a Sam Szafran che dai critici è stata definita «Ammaliante, affascinante, didattica e luminosa, una vera rivelazione, un’eccezionale retrospettiva, da vedere senza alcuna esitazione». E aggiungerei, un’apparizione che lascia disorientati. Vista a novembre 2022, in settimane intense piene di visite, per tenere testa a un’esorbitante offerta di esposizioni in rivalsa sul condizionamento pandemico, questa mostra si inseriva degnamente fra Munch all’Orsay, Hyperrealisme al Maillol, Autour de l’arte povera al Jeu de paume. Ma affiancava anche Monet-Mitchell alla Vuitton, Füssli al Jacquemart-André, Walter Sickert al Petit Palais per non parlare di Kokoschka al Musee d’art moderne, Alice Neel e Christian Marclay al Pompidou. E poiché a questo elenco, neanche completo, corrispondeva una ricchezza di materiali e spunti, non era facile raccogliere e selezionare tempestivamente idee e valutazioni.

A gennaio, con l’esaurirsi dell’invasione turistica natalizia, sono tornato nelle sale finalmente tranquille dell’Orangerie. E la folgorazione si è riaccesa ancor più coinvolgente percorrendo le quattro sezioni (Cronologia / Il caos addomesticato / La vertigine dello spazio – scale / L’inversione dell’interno – fogliame) della mostra curata da Julia Drost, del Centre allemand d’histoire de l’art e Sophie Eloy, dell’Orangerie. Una soluzione di allestimento che riassume i momenti di un’evoluzione artistica ma racconta anche la vicenda di questa mostra: una tardiva scelta di riconoscimento pubblico per un artista inspiegabilmente sottovalutato ed emarginato che l’improvvisa morte ha trasformato nella retrospettiva della sua avventura artistica e umana e di una storia che non era mai stata palesata.

Veduta della mostra, Sam Szafran, obsessions d’un peintre, Musée de l’Orangerie © Sophie Crépy

Biografia di un geniale outsider

Sebbene presente in importanti collezioni francesi e internazionali, l’opera di Sam Szafran è infatti apparsa raramente. Gli sono state dedicate mostre alla Fondazione Maeght di Saint Paul-de-Vence nel 2000 e alla Fondazione Pierre Gianadda di Martigny nel 1999 e nel 2013 e a Parigi una mostra al Musée de la Vie Romantique nel 2000; il Musée d’Orsay nel 2008 ha premiato due sue opere presenti nella mostra “Il mistero e lo splendore. Pastelli dal Musée d’Orsay”. Una retrospettiva nel 2010 è stata organizzata nel Max Ernst Museum a Brühl in Germania. Nel suo valore ha creduto e per la sua promozione ha fin dagli anni sessanta lavorato, il gallerista Claude Bernard organizzando ripetute esposizioni nella sua galleria.

Quindi senza imbarazzo non pochi potrebbero esclamare “Szafran e chi era costui”, come il critico ebraico Mervyn Rothstein che si è dichiarato stupito dell’esistenza riposta di questo artista, “un geniale outsider”, che nella discrezione ha patito e vissuto le contraddizioni, i tormenti e i fermenti della sua epoca.

La sua è una biografia densa, all’insegna della sofferenza ma sorretta fino alla fine da quella “ossessione” artistica giustamente evocata nel titolo della mostra. Samuel Max Berger, che per affetto e in omaggio alla nonna ne prenderà il cognome Szafran, nasce a Parigi nel 1934 da genitori ebrei fuggiti dalla Polonia; scampato alla cattura del Velodromo d’inverno e poi internato a Drancy, viene fortunosamente salvato dagli americani mentre il padre e parte della sua famiglia viene sterminata nel campo di Auschwitz.

Una breve, spiacevole esperienza in Australia, ospitato da una zia, si conclude col ritorno a Parigi dove si arrangia faticosamente. Ha studiato poco e non riesce a essere ammesso a nessuna scuola d’arte nonostante la sua profonda aspirazione. Ma nelle incursioni pirata nell’Académie de la Grande Chaumière viene accolto da Henri Goetz e frequenta personaggi chiave per la sua formazione complessiva quali Alexander Calder, Raymond Masson, Nicolas de Staël, Jean Tinguely, Samuel Beckett, Joan Mitchell, Yves Klein e soprattutto Alberto e Diego Giacometti e Henri Cartier-Bresson con i quali si legò di profonda amicizia.

Avvia le sperimentazioni con olio e varie tecniche finché negli anni ‘60 un amico gli regala una scatola di pastelli e scopre la sua vocazione. Sposa il suo grande amore Lilette Keller ma il loro figlio, Sébastien, nascerà con un grave disabilità.

Obsessions d’un peintre

Fin dall’inizio della visita sembra di entrare nella vita di Sam Szafran, nei suoi luoghi di sperimentazione. I suoi successivi atelier sono rappresentati nella loro materialità e nella infinita prospettiva dei loro spazi e così è la bottega stessa con i suoi strumenti a divenire protagonista.

Le prime immagini sono quelle realizzate a carboncino. Poi il colore esplode e in particolare si autoesalta nella rappresentazione di centinaia di bacchette di pastelli Roché meticolosamente riprodotti in un’ironica tavolozza. E appaiono in sequenze ossessive scale curvilinee o elicoidali, a spirale, sospetti di anamorfosi che sembrano sfidare la logica funzionale in una deformazione onirica, rivisitazione dei deliri di Piranesi o delle fantasie di Esher.

Veduta della mostra, Sam Szafran, obsessions d’un peintre, Musée de l’Orangerie © Sophie Crépy

Quando scopre, nello studio parigino del pittore cinese ZaoWou-Ki, il philodendron monstera, viene catturato da una fascinazione che finisce per impedirgli di lavorare. Finche quest’imponenza diventa la sua nuova ossessione con la quale riempie grandi formati traboccanti di quel fogliame che invade gli spazi interni di serre smisurate.

Uno sguardo mobile e sinuoso da ripresa cinematografica, un approccio allo spazio e una visione dell’intreccio fra interno intimo e volume urbano da architetto, una precisione nella descrizione dello sviluppo botanico da enciclopedista, una sensibilità e un’attenzione inesauribile al segno e alla traccia della presenza umana da indomito umanista. E comunque una testimonianza sulla inesauribile potenza di una descrizione fotografica della realtà sostenuta dal controllo della minima sfumatura e variazione di colore.

Sam Szafran , Escalier, 1974 © Sam Szafran, ADAGP, Paris, 2022

Ha narrato di uno zio che da bambino lo sospese nella tromba delle scale minacciosamente e questa sarebbe una genesi emotiva credibile di quelle visioni di piani inclinati multipli che definiscono uno spazio in movimento, cinematograficamente, una restituzione del senso di vertigine che nell’ultima opera esposta, il funambolo Philippe Petit come una figura giacomettiana vista dal basso, trova sintesi geniale.

Una prospettiva ai margini

Il bilancio di quest’esperienza e della vicenda nella sua globalità è difficile da tracciare. Ma si può proporre un’ipotesi di lettura. Un uomo e un artista come Sam Szafran, sempre stato ai margini della storia civile e culturale che lo ha ignorato sistematicamente – in fondo anche la miracolosa salvezza dall’eccidio può leggersi come un non averne riconosciuto l’identità – solo ora, nella fase più critica della storia del dopoguerra, nel lento dissolversi di certezze e predominanze consolidate anche nel mondo dell’arte, può essere riconosciuto dando spazio e valore alla forza e alla ricchezza espressiva del suo linguaggio fuori del tempo finora minoritario e trascurato.

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