Dopo la personale del 1972 nella storica galleria d’arte Studio Oggetto di Massimo De Simone, a distanza di cinquant’anni Luigi Mainolfi ritorna a Caserta, alla galleria di Nicola Pedana con una mostra dal titolo: “Terra del fuoco” in cui convergono le parole di Luigi Mainolfi: “La forma della pittura, il colore della scultura”. Una visione possente che nasce dall’ossessivo dialogo con i misteri e i miti che appartengono alla terra della Valle Caudina in cui Mainolfi è nato (Rotondi, 1948) e ha vissuto prima di trasferirsi definitivamente nel 1973 a Torino, con una dimensione mitica delle forme tra tradizione e sperimentazione che attraversano lo spazio atemporale della creazione per incarnarsi nella vita dell’uomo e divenire luce e inaspettato universo trascorrente. Una sorta di insolite e inaspettate partiture del fantastico e dei misteri oscuri dell’uomo, tra materia e colore, che al fuoco prendono forma dei pensieri divenuti ora scultura. Luigi Mainolfi da assiduo alchimista sa come mettere assieme il piombo e la luce, la materia e la fantasia per poi condensarli per ineffabile sortilegio in una visione sublimata e resa visibile.
Le prime esperienze di Mainolfi, risalgono al 1977 in cui ci svela le origini antropologiche della sua particolare visione poetica. Per Mainolfi il valore della rappresentazione, come per tutte le cose, sta tutto nel processo della trasformazione e nel cambiamento in divenire. Un effettivo approfondimento avventuroso del concreto farsi dell’opera verrà definito in modo completo e originale nei primi anni ottanta con opere come Elefantessa, in cui Angela Tecce per prima annotava: ”segni rituali di un mondo arcaico depurati da ogni velleità folcloristica, come frutti di una adesione senza remore dell’uomo alla voce silenziosa delle cose che va, semplicemente, risvegliata”. Sarà proprio nel 1982 alla 40a Biennale di Venezia di Luigi Carluccio, presentato nel Padiglione Italia a indicarci la dimensione vera del suo importante lavoro di ricerca con opere di forte impatto e suggestione come Alle forche Caudine, del 1981 o lo stagno, del 1982. Un mondo decisamente sintetico e nel contempo favolistico generato dalla povera terra e dall’invenzione creativa capace di accomunare i pensieri e attraversare il tempo prima di rigenerarsi nell’inquieta apparizione per divenire presenza. Tanti anni di assiduo lavoro hanno segnato degnamente il percorso di ricerca di questo importante artista, e oggi da ulteriori sviluppi e sperimentazioni.
Nella mostra personale a Caserta, sono presenti una serie di lavori a rilievo recenti che si destano sotto forma di colore, nati dalla fucina e dal fuoco oscuro che alla luce del sole si tramutano in particolari superfici color ocra, lacche di garanza e rossi pompeani segnati da micro avvallamenti e lievi rigonfìamenti da apparire a noi come dei paesaggi visti dall’alto. Una materia a parete come parte dell’infinito definita con frammentazioni e buchi neri delle superfici che nelle sue mani diventano ambienti in cui anonimi esseri nati dalla favola, come nel caso della grande scultura Silonte, può pascolare libera nello spazio della memoria. Per Mainolfi l’arte non un fine ma una continua preparazione per andare oltre, in cui i pensieri diventano flusso di luce rubata all’oscurità e consegnata al fuoco di un lirismo visionario. Un assiduo attraversamento ossessivo a indagare l’infinito alla ricerca del mistero, perchè la vita non è che una transitoria e momentanea condizione prima di involarsi verso un ultimo viaggio trascorrente per divenire parte dell’universo e della storia.
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