Il Muzeum Susch offre “The Measuring of Time”, la prima retrospettiva dedicata a Laura Grisi, scomparsa nel 2017, in collaborazione con jrp|editions e Galleria P420 di Bologna.
Il titolo di questa personale, “The Measuring of Time”, ha preso il nome di un film del 1969 in 16 mm parte di una fase della ricerca di Grisi estremamente concettuale ma anche speculativa.
Ma andiamo per ordine, la retrospettiva – a cura di Marco Scotini – si apre con Whirpool, una videoproiezione a terra sempre in 16 mm a colori, della durata di 3 minuti che immortala un vortice. Un vortice che vuole mettere lo spettatore di fronte a un semplice concetto: il pensiero è sempre in movimento, la dotazione inesauribile di un soggetto nomade.
Il fascino della figura di Laura Grisi risiede nella sua completa libertà e nell’assenza di schemi preimpostati appartenenti a correnti artistiche precise.
Laura Grisi, un’artista davvero poco convenzionale, passa moltissimo tempo fuori dall’Italia. Nasce a Rodi nel ’39 ma viaggia per gran parte della sua vita. Prima vivendo fra Parigi, Roma e New York, poi intraprendendo lunghissimi viaggi in Africa, Sud America e Polinesia. Qui l’incontro con culture lontanissime da quella occidentale. Questi incontri, infatti, segneranno la sua produzione fino alla fine. Grisi infatti si muove verso una la ricerca di un pensiero cosmico: il lavoro di Grisi viene descritto dal curatore, Marco Scotini, come uno sforzo titanico nel rendere conto dell’ampiezza, della molteplicità, di ciò che è impercettibile, così come della proliferazione senza fine di tutto “il possibile”.
Nei primi scatti di Grisi, in mostra a Susch, vi sono fotografie che ritraggono la condizione della donna, i rituali e i costumi delle popolazioni tribali che incontra nei suoi lunghi viaggi. Questo approccio cambia radicalmente proprio quando Grisi entra in contatto con le culture extra-occidentali. L’artista mette in discussione l’affidabilità della fotografia come medium e inizia a utilizzarla meccanicamente e impersonalmente – senza nessuna traccia di arbitrarietà.
La singola immagine perde importanza per dare spazio a permutazioni e variazioni dello stesso oggetto, o di una serie di oggetti.
Grisi arriva quindi alla XXXIII Biennale di Venezia, nel 1966, con alcune opere che – composte da pannelli “variabili” – mettono in luce questo cambiamento di rotta nei confronti della fotografia.
Alterando il medium del quadro Grisi rende l’impalcatura che sorregge la costruzione una combinazione ritmica in grado di mostrare figure geometrice in continua trasformazione.
I pannelli mobili di Grisi tornano con Pitture di Neon dove l’idea di sdoppiamento del tempo viene applicata aggiungendo neon e diversi filtri e schermi creando spazi “nascosti” sotto alla superficie.
I materiali utilizzati da Grisi in questa fase sono del tutto anticonvenzionali: alluminio, acciaio, plexiglass ma soprstutto il neon.
Laura Grisi è riuscita, nel corso degli anni, a ricreare ambienti in grado di ricercare intangibilità e immaterialità senza rompere con le opere del passato. Solo sviluppandone le idee. Nebbia, vento e acqua – insieme ad altri fenomeni naturali – sono le atmosfere che vengono ricreate dall’artista.
Al secondo piano della mostra si viene travolti dall’effetto nebuloso ricreato dalla stanza che ospita Un’Area di Nebbia dove l’atmosfera nebulosa viene trafitta dall’Installazione di quattro (Antinebbia) risalente al 1968.
Avendo lasciato la nebbia alle spalle, si viene travolti dalla forza di Vento S.E., un ventilatore dietro a cantinelle di legno che soffia alla velocità di 40 nodi. Il tema del vento viene anticipato anche da Wind Speed 40 Knots, una proiezione in bianoc e nero, sempre su una pellicola 16 mm, dove l’artista si impegna a catturare l’immagine invisibile del vento.
Drops of Water e Refraction, invece, lasciano spazio all’acqua. Uno si sofferma sulla dimensione uditiva mentre l’altro sulla dimensione visiva. Grisi opera un vero e proprio processo di femminizzazione dello spazio e dell’ambiente. Il tutto si può attribuire alla volontà di voler uscire dal presidio teorico maschile e occidentale della staticità materica.
Giungiamo quindi alla sezione dove, finalmente, viene proiettato The Measuring of Time (1969), che insieme a From One to Four Pebbles (1972), Choices and Choosing (1970) e Three Months of Looking (1970), rende chiara la categorizzazione di Germano Celant che registra Laura Grisi come appartanente alla categoria Offmedia. L’uso di diversi mezzi di comunicazione popolari rende quindi l’artista l’unica donna categorizzata da Celant in questa tendenza. Il bisogno di Grisi di frazionare ed enumerare ogni elemento è quello che emerge dalla parte finale della retrospettiva. In particolare, in The Measuring of Time, l’artista affronta la missione di contare ogni granello di sabbia di una spiaggia romana decretando l’impossibilità del compito e, infine, accettando la forza dell’infinito.
Le ultime opere in mostra, all’ultimo piano del Muzeum Susch, Stripes e Hypothesis about Time e Endless Dialogue chiudono la retrospettiva. Tutte prodotte sulla fine degli anni ’70 queste opere sono l’evoluzione del pensiero di Grisi che ci porta a riflettere sul concetto di gioco e rito che riescono a prendere vita grazie al numero illimitato di possibilità che le animano. Proprio a questo punto – come poco prima – l’infinito non ha fine.
Il Muzeum Susch, aperto grazie al progetto di Grażyna Kulczyk, è incastonato fra le montagne svizzere. Monastero benedettino fino al 1550 – quando a Susch prevalse la Riforma Protestante – diventò poi un edificio destinato a vari utilizzi nel corso degli anni.
Quasi come un grande laboratorio, gli spazi del Muzeum Susch si prestano perfettamente ad accogliere le opere di Laura Grisi. La curatela di Marco Scotini riesce a guidare lo spettatore, con grande maestria, attraverso le avventure, gli studi e la storia di questa artista poco conosciuta.
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