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Ma che bel castello! Quello di Pinksummer
Arte contemporanea
Senarega, poche anime dentro e tanto verde intorno. Un posto in linea coi tempi, quelli del Covid-19, ché lì il distanziamento sociale è assicurato. Non solo, c’è anche l’aria buona, e per chi solitamente vive in città questo è sempre un valido toccasana. Senarega è come una bolla, uno di quei paesini apparentemente inattaccabili da ciò che accade nel resto d’Italia e nel mondo. Ma poi arriva Pinksummer, che restando nella provincia genovese di fatto ridimensiona al momento storico-pandemico in corso il progetto “Pinksummer goes to”. Spostandosi perciò di pochi – ma intensi, la strada per arrivare a Senarega è da quasi amanti dell’off-road – chilometri dal suo quartier generale, tra le stanze di un castelletto dove ha distribuito 8 tra gli artisti in scuderia.
Situata tra le mura del Castello Senarega-Fieschi, “Why should not we enjoy an original relation to the universe?” (fino al 13 settembre) è una mostra in odore di catarsi, basata sulla potente combinazione presente/passato. È anche il miglior “detox” per frenetici business man abili col navigatore, ma poco avvezzi ad interagire con luoghi dimenticati da Dio. Un display dal fascino intramontabile. Che tuttavia offre piena soddisfazione quando oltre al luogo da Invito al viaggio alla Baudelaire si dispone di pezzi non solo validi, ma anche pertinenti all’occasione.
Pinksummer nel castello: magia per nuove generazioni
Pezzi validi, pertinenti e magari pure freschi di produzione. Come un’opera firmata Luca Trevisani, lavorata tra natura e artificio serigrafando tappezzerie a foglie primo novecentesche su foglie vere. Potere dell’elemento decorativo-arcaico applicato all’uso concettuale-attuale, una combine perfetta che fila liscia liscia, e sposa perfettamente i secoli di storia passati tra quelle mura. Anche la collocazione a pavimento è un plus stra-ordinario nel suo essere emblema dell’ordinario: gravità impone che le foglie cadano a terra.
L’insieme messo in piedi dalle galleriste Antonella Berruti e Francesca Pennone è di una “concretezza fiabesca”. Quando capita pure un po’ magico, grazie anche a presenze come Bojan Sarcevic, che col suo ramo strappa-capelli biondi – di un antropomorfismo subliminale – per la prima volta assoluta fa il paio con gli alberi dichiaratamente antropomorfi di Koo Jeong A. Un colpo di fulmine che scatta mentre Cesare Viel riparte da zero, ritrovando col suo piatto di famiglia – già presente nell’ultima personale da Pinksummer, Scrivere il giardino – una bilanciata coesione tra dimensione espositiva e inclinazione domestica congeniale al pezzo. Fascino antico del luogo e appoggio su una cassapanca in legno scuro ridanno a Cesare (Viel) quel che è di Cesare (Viel).
Fuori si è stretti tra una Liguria dove boschi e mulattiere regalano un’ambientazione degna dei Sette Nani. Dentro Tomàs Saraceno gioca con le prospettive strutturali delle sue ragnatele nere, passate a grafite. Gioca con la coesione sociale tra ragni in tempi di distanziamento sociale umano, in una stanza singola dove dalla finestra il verde intenso dell’Appennino ligure interagisce in sinergia col suo lavoro. Concettuale, reale, verace, Saraceno spesso piace quasi incondizionatamente. Ma quando incontra l’habitat di Senarega – un po’ come avviene per Viel – radicalizza il suo lavoro artistico. Che in altri termini significa arrivare ad un prodotto dall’alto profilo installativo, da qualsiasi angolazione lo si osservi.
Gli alberi di Luca Vitone
Uno degli 8 di Pinksummer girava per Senarega il giorno dell’inaugurazione: Luca Vitone. In mostra in primis un caposaldo della sua ricerca, uno di quei ritratti simil-monocromi che raccontano i luoghi – in questo caso ovviamente il borgo di Senarega – nella maniera più circostanziata e partecipativa possibile. Ovvero esponendosi ad essi, nascendo da prodotto sostanzialmente autoctono, e non come appendice narrativa – per così dire – “forestiera”.
È in fondo la pittura vista da un artista a cui lo stessa pratica pittorica non appartiene. E che pertanto se prende anche solo un carboncino in mano fa notizia. Perché di “disegnare” un lavoro a suo dire gli era capitato solo svariati anni fa, nello specifico con Appunti di viaggio.
Per il bis c’è voluta l’inerzia del lockdown, unita alla chiamata di Stefano Boeri per un suo intervento all’interno del futuro Parco Polcevera, per il quale Vitone ha in serbo il progetto Genova nel Bosco. «Ho iniziato a pensare agli alberi» racconta, e così è nata «Di getto» una serie di numeri-albero, ibridi di una sinuosità ad impatto zero di cui la mostra presenta in anteprima i primi 10 dei 43 carboncini. 43 – superfluo a dirsi, ma dovere di cronaca impone – come le vittime del Morandi.
Il bosco che verrà. A bordo Polcevera
Vitone se ne sta sotto un castagno secolare – «Non sono Socrate, lui aveva il platano» scherza – mentre parla al suo distanziato pubblico di Genova nel bosco. Progetto in prima – e temporanea – battuta anticipato dalla Radura della memoria, caratterizzata da un’impostazione a pianta circolare (caldeggiata – rivela Vitone – da Boeri); ma che, sempre a sentire l’artista, nella dimensione definitiva di Genova nel bosco potrebbe riprendere la forma libera da lui inizialmente immaginata.
Tutto questo Vitone lo racconta non prima d’essersi premurato nel dire «Non sono un botanico», giusto per mettere le cose in chiaro. Più che ammissione excusatio non petita caro Luca, sappiamo già che la botanica è più un pretesto per parlare d’altro. Seguendo il Vitone-pensiero, nella più tipica Vitone-maniera.
Del resto parlare di una «Pedana come plinto» per innalzare 43 alberi di provenienza mediterranea è già sufficiente a spostare l’attenzione dal concetto puro di “essenza arborea”, a quello di “essenza” come termine assoluto. E non stupisce che dalle parole di Vitone – artista anti-retorico per eccellenza – emerga proprio il suo dedicarsi a quest’ultima, applicandola a 43 alberi che diventeranno simboli a tutto tondo. Organismi statuari da tramandare alle prossime generazioni, parti di un memoriale non scritto per una pagina di storia italiana su cui c’è poco da chiacchierare. Dalla nostra posizione – che poi è la stessa di Vitone – c’è sempre da ricordare che 43 vittime sono altrettante persone.
Qui ad Exibart non siamo indovini, ma prevediamo alberi non contaminati dal fanatismo umano. Essenza del ricordo consapevole e stratificato dei fatti, della diversità individuale che ci unisce. E in ultimo dei 43 illustri liguri nascosti tra gli anagrammi abbinati ad ogni albero, che l’artista sta studiando assieme ad Antonella Sbrilli.