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Maresistere: il progetto di Roxy in The Box, sulla rotta Napoli-New York
Arte contemporanea
Era facile morire, fin troppo facile anche prima del pandemonio. Prima del virus. Prima della malattia. Prima che a tutti quanti, indistintamente, venisse un accidente. Era facile che sparisse qualcuno, che se ne andassero a milioni per i tumori e tutte le altre pesti cancerogene o che finissero a spiaggiarsi interi popoli migranti, come balene a faccia in giù dentro la sabbia. Era facile morire, facilissimo. La novità che però adesso ha stravolto il mondo, più della morte e forse più del contagio, è il divieto. Non c’è stato mai fatto divieto di morire, ma oggi ci è vietato vivere. È un interdetto assoluto, immediato e violentissimo, che non ha nulla da spartire con il nostro modo bonario e pacifico di adempiere ai doveri. Il divieto di vivere è cattivo.
Il nostro mondo si decerebra, si scortica, si crepa perché qualcuno ha cominciato a star male. Sembra proprio una parabola che vuol darci alla fine una morale col cucchiaino. L’amarezza di questi tempi la si sente, in effetti, come una brutta medicina. Nei giorni in cui tutto questo cominciava, chiudendo progressivi i confini di ogni cosa, chiudeva anche MARESISTERE, progetto dell’artista partenopea Roxy in The Box, presso il Museo Archeologico di Napoli. Un lavoro che analizza, con scrupolo documentario, il flusso migratorio che interessò la rotta Napoli-New York tra Otto e Novecento.
Servendosi dei documenti dell’Archivio Storico del Banco di Napoli e dell’Archivio di Stato, incrociati con il database di Ellis Island, l’artista ha intessuto una trama visibile di storie che volutamente si sovrappongono, costruendo uno spazio che prende la forma precisa di una camera da letto dei primi del Novecento. È la narrazione di una speranza collettiva a farsi arredo, carta da parati, armadio a due ante, letto con spalliera e cassettiera. Del resto nulla ha più impeto di una storia unanime, adesso lo sappiamo, nulla ha più potenza della collettività. Soprattutto della collettività quando soffre.
MARESISTERE si pone di sicuro come una devianza in seppia e bianco e nero. Sono messi da parte, per una volta, i colori che da sempre popolano i lavori dell’artista, come se l’affondo nelle storie altrui abbia costruito una compassione, un sentire solidale che diventa, poi, per forza ombra, turbamento e malumore, e poi lacrime che fanno eco nel colore, nella traccia di Roxy in The Box che adesso scrive e parla in nero. Un nero che c’era da sempre e che adesso emerge. Riempie i cassetti. Straripa.
Mutiamo noi se gli altri mutano. Nientemeno soffriamo della sofferenza altrui, in una permeabilità che ci riguarda al di là della pietà. Non è la misericordia a renderci esposti, non sentiremo mai l’inferno mentre un altro è tra le fiamme, non è questo che succede. Il dolore, del resto, è personale, riguarda da pelle di ciascuno. Accade invece che una comunità involontaria si produca, immediatamente, quando percepiamo di essere di fronte a un’unica impresa ed è quella che abbiamo in noi, latente ma profonda, come un nocciolo duro nella carne.
Il meraviglioso cassetto con dentro il mare di Roxy in The Box è l’opera che più di tutte descrive questo stato attuale, l’immaturità di tutti, di un mondo fatto di gentaglia, una marmaglia umana che tuttavia resta indivisibile, colma di paura, oscurantismo e superstizione, colma di fame, colma di pane. Quello di Roxy è un cassetto pieno di pianto. E la sua, al di là dell’ovvio valore simbolico e del messaggio di apertura che promuove, è un’opera su quella comunità involontaria, su quel nocciolo duro che giorno dopo giorno in noi si sta allargando, silenzioso come una metastasi. Come una pandemia.