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Matrice. La (ri)nascita di Jacopo Benassi
Arte contemporanea
Certo, Jacopo Benassi (La Spezia, 1970), «Le cose sono belle nel momento in cui le fai» come dici tu. E il sottoscritto ne ha viste e sentite, ma non gli era mai capitato che un artista durante l’inaugurazione della sua personale parlasse di quel giorno dicendo «È un po’ un funerale». Effettivamente, sempre al qui presente, non era nemmeno mai capitata una personale come Matrice di Benassi, a cura di Antonio Grulli. Tutto nella norma quindi.
Sede ospitante è Fondazione Carispezia, col suo piano terra di rappresentanza perfetto, pulito, bianchissimo. Jacopo ha la presenza scenica per esserne la perfetta antitesi. Non fa il personaggio, ragiona su quello che fa, ma non pensa troppo, perché dice lui «Odio pensare». La mostra in effetti ha un allestimento dal carattere piuttosto sanguigno. Segue l’effetto di una noncuranza maniacale, mettiamola così, spingendo sull’uso e abuso d’immagini senzienti, smistate secondo una sequenzialità efferata.
Matrice ostenta un’impulsività direttamente proporzionale alla sua imperfezione. È l’asilo poetico che Jacopo ha chiesto alla città d’origine, unico luogo capace di tenere insieme i molteplici pezzi della sua storia. Matrice infatti è unica e inalienabile, tanto dalla città de La Spezia, quanto dalla Fondazione, che ha accolto il suo studio, allusivamente a pianta triangolare, in cui per circa due mesi Jacopo ha lavorato alla mostra. E dal quale – previa distruzione “rigeneratrice” da parte dell’artista – è nato l’intero progetto mostra. In verità, sarebbe pure sbagliato dire che Benassi ha “lavorato”, perché lì dentro non si è trattato direttamente di lavoro, bensì di concedersi la libertà di essere. Express yourself direbbero gli anglosassoni.
Matrice è “real-art”, una mostra che non presta il fianco alla perfezione canonica, semplicemente perché vita vissuta da Jacopo sulla propria pelle. Lo diceva anche un presissimo Stefano Accorsi nel film cult Radiofreccia, nel corso di un monologo viscerale, che «La vita non è perfetta. Le vite nei film sono perfette, belle o brutte, ma perfette». E lui, diversamente da Benassi, non aveva ancora incrociato Instagram e compagnia social.
Matrice. L’uragano Benassi a La Spezia
Matrice è un gran casino. Si. Un piccolo uragano innescato da quella scritta “entrata”, spennellata in malo modo (o nel miglior modo possibile, questione di prospettive) col nero sul bianco candido della parete. È l’energia rilasciata da tutto quello che Jacopo ha distrutto, ricostruito e lasciato in giro; dall’autenticità accorata, dal ricorso a un mixed-media che diventa parte integrante e interattiva imprescindibile. In mezzo agli oggetti abbandonati, alle foto con cui Benassi racconta La Spezia come un giardino dei misteri a suo uso e consumo, una giungla sub-urbana che prende corpo unicamente alla luce comandata del suo flash. In mezzo anche ai paesaggi spezzini, che il nostro ha dipinto dietro l’ispirazione ottocentesca dello spezzino Agostino Fossati, talmente “polverosi” da restare a un palmo dal presente.
Vi leggiamo nel pensiero. Già vi state chiedendo: ma Benassi non si occupava di fotografia? Si, e ci tiene pure a ricordare chi lo indirizzò per quella via, il concittadino – maestro ai tempi, oggi a tutti gli effetti collega – Sergio Fregoso. L’ha pure detto con la sua viva voce, testimoni tutti i presenti: «La pittura non è mai stata mia strada».
Qui tuttavia per un breve tragitto lo è diventata, con la funzionalità di chi non teme d’inerpicarsi in terreni semi-sconosciuti per far le cose fatte bene, e non teme nemmeno di snaturarsi di fronte alla critica di settore. Di chi non può permettersi di negare e rinnegare, quasi che una Matrice senza pittura potesse essere una Matrice monca, non altamente rappresentativa del suo mondo, quindi di sé stesso. Di un “Benassi il fotografo” che qui pare a tutti i costi lasciare il posto a Jacopo in quanto Jacopo: nato a La Spezia, e ri-nato da quello studio triangolare in cui ha dato tutto sé stesso, pantofole ai piedi, come documenta la proiezione organizzata sui quattro lati della struttura maxi-totemica installata al centro del salone principale.
Tradizione e tradimento
Bisogna lanciarsi, senza la paura di farsi male. Rubando una massima, «Bisogna tradire la tradizione». È scritto a bomboletta poco più in là dell’ingresso, su un telo poco engagé e molto effetto “curva sud”. O effetto Benassi, che le cose pare scegliere di urlartele addosso; lui che, tradendo la sua di tradizione, è riuscito a non rimanere nello stallo dei cliché. Che per tutti è un fotografo, ma qui è riuscito a ibridare – e potenziare – il linguaggio realista/bidimensionale dandogli quella complessità dimensionale che solo l’azione plastica sa fare. E che mentre interveniva, dicendo «La pittura non è mai stata mia strada», ha aggiunto «La scultura men che meno».
La scultura, proprio quella. Altro salto di media. In giro ci sono ancora i calchi di quei gessi scuri, simulazione delle frastagliate scogliere liguri in cui Benassi ha incastrato le sue inquadrature pressate sulle onde del mare, realizzati assieme al compagno Augustine Laforêt. La loro riuscita non sta solo nella bellezza oggettiva del prodotto, ma ben di più nel loro essere archetipo di una relazione affettiva inderogabile.
E se Jacopo prima odiava pensare, qui vogliamo concederci il lusso di farlo noi. Rimettendo insieme i pezzi con calma. Per riflettere su come Matrice sia anche una plateale dichiarazione d’affetto, apologia di tutti quei legami che hanno un peso nella vita: in separata sede, Jacopo ricrea il perfetto ritratto di famiglia, col padre ritrovato nelle bruciature di sigaro su comodino, e la madre nell’impronta della Pietà che Jacopo stesso ha dipinto nel 1988, e tenuta per trent’anni sulla testiera del letto in camera dei genitori.
Dalle tante scritte alle pennellate lasciate sul cartongesso. Dagli stracci appesi alla boccetta di bitume liquido al fuoco amico delle immagini che si aprono su altre immagini: in ogni frammento, attaccato con pezzi di nastro adesivo o tenuto in piedi con cinghie e svariate assi di compensato, c’è l’irruenza maieutica che Benassi si è auto-applicato. Che poi è direttamente correlata alla sovraesposizione della fragilità d’insieme; in un complesso che Jacopo affida al suo prossimo, e dove il suo prossimo deve avere la giusta accortezza di non polverizzare tutto. Maneggiare Matrice con cura – non solo fisica – è la prima regola.