Con un’ostinazione pari alla propria necessità d’interrogare e alla volontà di superare costantemente sé stesso, lungo tutta la sua avventura artistica Maurizio Mochetti ha portato alle estreme conseguenze, non più solo l’incontro con la quarta dimensione di Einstein che caratterizzava la concezione spaziale delle avanguardie dagli inizi del secolo scorso, ma con le teorie della fisica quantistica e con gli esiti determinati dall’allunaggio americano del 1969. Quest’ultimo, non aveva agito poderosamente, soltanto sull’immaginario dell’epoca, ma aveva inaugurato altresì, il tempo della globalizzazione, frapponendo tra la terra e il cielo due satelliti, che avevano dato il via al primo segmento della rete.
Si delineava un nuovo ordine di problemi di cui, con gli sconfinamenti praticati dai movimenti artistici di quegli anni, tra la strada (il mondo) e i luoghi deputati dell’arte (la rappresentazione tangibile delle idee) si cominciava ad indicare con insistenza che le nozioni di spazio e di tempo, come le avevamo conosciute sino ad allora, stavano cessando di esistere.
“Non esiste né il tempo né lo spazio. Lo spazio è la conquista della nostra conoscenza” ci avverte Mochetti.
Fra le tendenze che al nuovo scenario artistico davano forma, sia tramite la materia allo stato puro, che mediante l’azione, o facendo ricorso al simbolo, Mochetti prese un’altra direzione, dove s’intravedeva un’alleanza tra una visione metafisica – che non significa mistica – e una concezione filosofico-scientifica, ma dentro le dinamiche di un divenire che, da allora in poi, ne ha caratterizzato tutta l’opera.
Porre sullo stesso piano i suoi Progetti – alcuni sono tuttora da realizzare –
e la loro fisica esecuzione, ci fa comprendere l’assolutezza del suo pensiero.
Subito Mochetti utilizzò anche la tecnologia, che per lui resterà sempre, tuttavia,
solo un mezzo, il grimaldello, per avvicinarci all’immaginazione poetica della complessità di quel cosmo che pervade, senza che ne siamo consapevoli, l’esperienza della realtà in cui ci muoviamo, ma di cui, troppo spesso, non percepiamo l’esistenza.
Mochetti ha sempre voluto spingersi oltre la banalità di ciò che si vede, sapendo che dall’altro capo del taglio prodotto sulla tela, da colui che riconosce come suo principale maestro – Lucio Fontana – , si apriva uno spazio sconfinato tutto da inventare e da consegnare all’uomo per immetterlo finalmente in quell’universo che – dal mito di Dedalo e Icaro alle imprese di Leonardo, dai palloni aereostatici dei fratelli Montgolfier all’aliante dei fratelli Wright, sino alla costruzione del primo aereoplano – ha incarnato una delle sue aspirazioni più profonde, quella di sollevare i propri piedi dalla terra per poter esplorare l’universo.
Ci sono voluti anni, perché all’immaginario di Mochetti venissero in soccorso le applicazioni della scienza e della tecnologia – troppo spesso anticipate con l’intuizione, come nel caso dei suoi studi sulla luce che già preludevano a ciò che il laser, in seguito, gli avrebbe permesso di avverare – in modo tale, come nel caso di questa mostra, che la gestione completa dello spazio potesse dispiegarsi sotto gli occhi del visitatore con tanta libertà nell’osservare le peripezie di un aereo in volo – che ci appare nei più diversi punti dello spazio, vicinissimo o lontano, radente o in picchiata, come puro sviluppo della nostra capacità d’immaginarlo.
Dalle ipotesi, quindi, allo spazio reale, cercando di fare compiere allo spazio euclideo, misurabile, il salto quantico verso lo spazio-ambiente, considerato come un tutt’uno. Uno spostamento dell’ontologia dall’essere al divenire. Da un mondo determinista a uno probabilista. Il concetto di realtà associato alla meccanica classica era pari a quello di un automa, mentre qui è in gioco una precisa volontà di autodeterminazione.
Rispetto agli artisti che hanno interpretato lo spazio-ambiente in chiave di trasformazione chimica, optando per l’aspetto ecologico, oppure in chiave di spettacolo, avendo come obiettivo la “manifestazione” e il teatro, il modo di intendere l’ambiente da parte di Mochetti è quello di disegnare una rotta per riacquisire, però, tutto il potenziale di scelta nel percorso da svolgere, tanto da raggiungere la possibilità non solo di spingersi in avanti, ma anche di curvare e di girare su sé stessi.
Il continuo ricorso allo specchio – come già in un’opera del 1977, Lotus Super Seven Model Series Three, dove un’automobile è inseguita dalla sua riproduzione in scala 1:24, in modo da trovarsi riflessa nello specchietto retrovisore di quella più grande – o a figure speculari, come in questa mostra la doppia coppia di Amore e Psiche/Processo di paragone (1974) posta sulla diagonale dei due angoli della stanza, o ancora, lo specchio sulla fusoliera dell’Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944 (1977), in cui si riflette l’occhio dello spettatore appena si avvicina per osservarlo, ne sono la prova.
Ogni diversa posizione degli aerei – che possiamo considerare come un solo aereo, sul cui corpo si addensa parte della polvere atmosferica dei suoi attraversamenti – ci indica un momento della circumnavigazione, colto mentre sta passando da una dimensione all’altra, come Bang (2016), o mentre sta sospeso a mezz’aria e punta dritto su di noi come Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944 con specchio, oppure come Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944 con punti rossi, quando sembra introdurci al viaggio, sin dall’ingresso.
A fare eccezione è solo Missione V1-Balléin, 2013, un’allusione al lancio propagandistico su Londra delle V1, considerate da parte della Germania hitleriana “armi di rappresaglia!”, a soli 10 giorni dallo sbarco Alleato in Normandia.
Straordinari sono Camouflage en rouge, 1987 e Camouflage Natter pixel grigi, 2019,
dove il movimento si placa e il piacere dello sguardo si consegna completamente alle sagome dei due aerei immersi e “camuffati”, nel primo caso, da un puntinismo rosso di tipo atmosferico e nel secondo dai pixel grigi che formano la griglia delle nostre immagini digitali (un duplice camuffamento).
I camouflage di Mochetti sono ciò che resta dell’universo di superficie della pittura nel mondo distante varie orbite, ormai, dal pianeta terra, con cui l’artista ha scelto di confrontarsi. Quello sguardo alla superficie del mondo e delle cose, offuscato dai sensi, dove la percezione è influenzata da apparecchi umani poco veritieri e soprattutto dal connotato retinico della vista, ma che ci consente, tuttavia, molte delle attività tipicamente umane collegate all’imitazione, alla rappresentazione e alla riproduzione (mímēsis).
È sorprendente come il camouflage a cui Mochetti, fa riferimento di solito – quello di carattere bellico – grazie alla consistenza opalescente delle nuove resine, trasformi
la fisicità dell’aereo nel corpo soffice di un pacifico animale, riportando il camouflage alla sua lontana origine, quella istintiva della sopravvivenza animale. Una forma di spiazzamento che evoca il termine “perturbante” di Freud.
Alla Freccia Nera in fibra di carbonio, piume nere, acciaio verniciato nero, sospesa a un filo di nylon che ci accoglie appena entrati e che, nella sua leggerezza, può ruotare a 360 gradi, fa riscontro il progetto del 1974 a matita su cartoncino, dallo stesso titolo appeso alle pareti dell’ufficio, un vero manifesto di poetica, dove due ellissi s’intersecano, alludendo alla capacità di rotazione di una sfera in tutte le direzioni, ma attraversate da una freccia che, paradossalmente, ha un’unica direzione. Qualcosa che evoca quasi inevitabilmente l’espressione “la freccia del tempo” a cui Ilya Prigogine ricorre per indicare la vita nel cosmo, a cui, in un contesto di mobilità e fluidità, riconosce i caratteri della linearità. Una sorta di “senso” di un cosmo mutevole.
In modo inaspettato nella seconda stanza ci troviamo di fronte a una pedana quadrata su cui poggiano dei vasetti del IV secolo a.c. dal titolo ironico È tutta un’altra storia 2014, attraversati da segmenti di luce laser che contemporaneamente si proietta sulle pareti, dove restano visibili i vuoti lasciati dal frapporsi del loro corpo solido. La possibilità di creare un continuum spaziale infinito, annullando le distanze e attraversando gli spazi, trova qui il suo coronamento.
“L’arte è una continua evoluzione, non dovrebbe avere forma, L’arte è l’idea”, ha scritto Mochetti, che ha finito per portare a compimento quelle che erano le premesse del futurismo italiano e del costruttivismo russo, incarnando però anche lo spirito delle correnti ermetiche e delle concezioni neoplatoniche, dove ogni sforzo è volto al raggiungimento di verità non date.
Utopie, prodigi cui certo la scienza e la tecnica contribuiscono, ma sempre sul filo dello sforzo prometeico dell’uomo.
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