Per protestare contro alcuni investimenti poco etici da parte del board del MoMA, Michael Rakowitz ha chiesto di mettere in pausa il suo video in esposizione al PS1. Letteralmente, perché l’opera è tuttora visibile al pubblico ma in stand-by. D’altra parte, non potevamo che aspettarci un mossa dall’impatto significativo, deflagrante, da parte dell’artista nato a New York e di origini irachene, protagonista di una ampia mostra recentemente inaugurata al Castello di Rivoli.
Rakowitz ha risposto all’appello di Art Space Sanctuary, un gruppo di attivisti che richiede chiarimenti sugli investimenti di Laurence Fink, membro del board del museo di New York e CEO di BlackRock, la più grande società di investimenti al mondo, il cui nome è già di per sè inquietante, anche senza considerare il suo patrimonio gestito di 4mila miliardi di dollari. Fink ha investito in società dedite alla vendita di armi e all’amministrazione di prigioni private, come la Fidelity Investments.
Ma Rakowitz è andato ancora più a fondo. Nella polemica rientra anche Leon David Black, collezionista e presidente del MoMA, oltre che fondatore della società Apollo Global Management la quale, a sua volta, ha investito nella Constellis, società che offre «servizi di gestione del rischio». Che è un modo più elegante di scrivere contractors, cioè compagnie militari che spesso operano al di fuori del diritto bellico internazionale.
A questo punto, risulta squisitamente paradossale che la mostra al MoMA PS1 si intitoli “Theatre of Operations: The Gulf Wars 1991-2011”, più di 300 opere per raccontare come quella specifica area geografica sia diventata un teatro di guerra. Inteso non solo come campo d’azione militare ma anche come area strategica nei processi di rappresentazione mediatica. Alle guerre in Iraq, Rakowitz ha dedicato diversi lavori, come Spoils, performance culinaria durante la quale l’artista cucinò specialità della cucina mediorientale, servite ai tavoli del Park Avenue, un rinomato ristorante di New York, in un set di piatti cinesi saccheggiati dal palazzo di Saddam Husssein. Invece, l’opera presentata al MoMA PS1 e ora in pausa è Return, progetto ancora in corso con il quale Rakowitz ha riaperto l’attività di famiglia: un negozio di import export verso l’Iraq, con sede a Brooklyn.
La mostra era stata criticata anche dall’artista britannico Phil Collins, che ha ritirato il suo lavoro, Baghdad Screen Tests, proprio per la presenza di Fink nel board del museo. Ma Rakowitz ha avuto un’idea diversa ed è difficile dargli torto: «Non è l’artista che deve andare via. È il rapporto disfunzionale con questa forma di filantropia tossica a essere abusivo», si legge nello statement pubblicato dall’artista.
«Chiedo gentilmente a Larry Fink e Leon Black di uscire da queste compagnie, in modo che io possa premere di nuovo play. Se ciò non è possibile, chiedo cortesemente che il MoMA allontani Larry Fink e Leon Black, in modo che io possa premere play. E se ciò si rivela impossibile, allora chiedo gentilmente che il PS1 Contemporary Art Center, prenda le distanze dal MoMA, in modo che io possa premere play».
Peraltro, Rakowitz aveva rifiutato di esporre alla Biennale del Whitney, a causa della presenza nel board di Warren B. Kanders, vice presidente del consiglio del museo e, soprattutto, amministratore delegato di Safariland, una società che produce bombole di lacrimogeni e altri prodotti usati contro i richiedenti asilo sul confine tra Stati Uniti e Messico. In quella occasione, il movimento di protesta ebbe successo, visto che Kanders alla fine fu costretto alle dimissioni.
Ormai tutti i maggiori musei occidentali sono al centro di un’ampia ridiscussione che, pur ancora disorganica, non inquadrata in programmi, manifesti o strategie comuni, sta contribuendo in maniera decisiva a mettere in crisi certi assetti ormai stratificati.
Di certo, il movimento che ha fatto più scalpore è quello di Nan Goldin che, insieme al collettivo PAIN, ormai da anni porta avanti una crociata contro le case farmaceutiche. C’è poi la questione coloniale, che riguarda in particolar modo i musei francesi e inglesi – annosa la disputa dei marmi del Partenone al British Museum – per non parlare delle politiche di acquisizione poco chiare di quelli statunitensi, come nel caso dell’Atleta di Lisippo al Getty Museum.
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