I lavori che conosciamo di Mike Nelson (Gran Bretagna, 1967) (in Italia il Padiglione Gran Bretagna della 54 Biennale di Venezia del 2011 e la potente installazione all’OGR di Torino nel 2018) sono incentrati sulla trasformazione radicale di spazi definiti sin nei minimi disturbanti dettagli, carichi di storie e di memorie, di vissuti che sembrano avere popolato quegli spazi fino a qualche tempo prima. Gli spazi sono sempre privi di presenze umane visibili, ma pregne di tracce grondanti vita, esperienza, storie personali che hanno riempito nel passato quegli stessi spazi. Vi è quindi sempre un rapporto “complesso e complicato” con la storia, una “trama di relazioni” che si rende visibile e palpabile e con cui lo spettatore intrattiene un rapporto intimo ed immersivo.
Lo spazio costruito da Nelson intesse un rapporto con il paradigma del set cinematografico o teatrale, che accoglie narrazioni con cui a sua volta l’artista intesse una relazione inestricabile tra realtà e finzione, tra storia e sua ricostruzione finzionale, sempre comunque con il fil rouge di un rapporto perturbante (eerie) che innerva le mise-en-scene di solito male illuminate e notturne dell’artista.
L’artista in una recente intervista pubblicata su ARTBASEL afferma di avere accantonato il paradigma dello spazio in quanto abitare e di concentrarsi ora maggiormente sulla scultura. Vediamo come, alla luce della mostra in corso nel Palazzo dell’Agricoltore di Parma.
Voluto in epoca fascista già secondo un’idea di Carlo Pareschi del 1928, è solo dal 1939 che con il progetto dell’ingegnere Ottone Terzi ha inizio la costruzione, che si protrae negli anni della guerra per venire concluso solo anni dopo.
Nella visita che il curatore Didi Bozzini mi ha generosamente dedicato, viene sottolineata l’imponenza del palazzo di sei piani, l’occupazione prepotente del suolo parmense, affatto rispettosa degli edifici che lo circondano: lo divide dal Teatro Regio di Parma una oscura piazzetta, cade a strapiombo sulla via Mazzini costeggiata da edifici settecenteschi e sfiora la zona absidale della chiesa di Sant’Alessandro. Il palazzo costituisce un segnale mastodontico nel tessuto antico della città , un simbolo arrogante dell’importanza dell’agricoltura nelle politiche socioeconomiche del Fascismo. La forma razionalista e funzionale comunque è in sé un bell’esempio architettonico evidenziato dalla chiarezza dei volumi esterni ed interni. Il curatore mi suggerisce gli snodi letterari da cui il lavoro è decollato: Pasolini e le riflessioni sulla trasformazione dell’Italia da agricola in industriale (L’articolo sulle lucciole), il labirintico Castello di Kafka e la reverie nella passeggiata di Rousseau.
Queste suggestioni in Mike Nelson sono state tradotte nel “correlativo oggettivo” della natura stessa. Infatti l’artista decide di richiamare direttamente il materiale primario a cui l’edificio con la sua funzione fa riferimento: i tronchi e la terra e, innestati improvvisamente come da una mano che li ha adoperati fin da poco tempo prima, gli strumenti di lavoro del legno. I tronchi e i rami sono stati recuperati da un bosco disboscato in Liguria: 6000 metri quadrati di natura, caricati da sei camion a rimorchio. Un’imponente mole di materiale, disposto in maniera oculata e calcolatissima in particolari stanze, angoli, scale, punteggia il palazzo. Si inizia dal salone centrale a piano terra – un tempo sala d’attesa prima del Consorzio agrario provinciale e poi del Banco di Napoli: lì una lunghissima catasta di legno occupa imponente il centro dello spazio e gareggia con l’altrettanto imponente spazio che l’accoglie. La natura ancora vivente, perché i vermi e i batteri stanno operando nel legno, si confronta con lo spazio architettonico. L’organico nella sua confusione e imprevidibilità si confronta con la pulizia delle linee dell’architettura. Il curatore è sollecito nel sottolineare giustamente come i tronchi e i rami (talvolta disposti a fascio in un ironico richiamo) siano collocati in modo tale da costruire prospettive continue e dialettiche tra spazio interno e spazio esterno, come se invisibili canocchiali ci accompagnassero verso la città , la sua storia e la sua varietà .
L’artista ha architettato in maniera molto raffinata e consapevole i rapporti spaziali tra i legni-scultura e l’architettura, costruendo un dialogo continuo in cui il contenitore stesso è diventato scultura e contenuto (medium direbbe Rosalind Krauss), tramite di costruzioni relazionali continue tra vuoti, pieni e storia interna del palazzo ed esterna della città .
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