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Milano piano zero – Urban Center Triennale
Arte contemporanea
di Matteo Gnata
Milano Urban Center, luogo deputato ad accogliere progetti e interventi dedicati all’osservazione delle dinamiche urbane della città e inserito all’interno del palazzo della Triennale, ospita fino al 12 dicembre la mostra “Milano piano zero”, ideata e curata da Giacomo Pigliapoco e Chiara Spagnol. L’esposizione si articola su due piani e propone una riflessione sulla Milano contemporanea tramite il lavoro di nove artisti e una serie di materiali e testi consultabili, provenienti dall’Archivio e Biblioteca di Triennale Milano. Il titolo invita a riconsiderare il capoluogo lombardo dalle sue fondamenta, dalla sua vita intrinseca, fornendo un punto di vista che può aiutare a ripensare criticamente la progettazione urbana. Significativa è l’estetica dello spazio che non si configura come luogo espositivo, bensì presenta caratteristiche riconducibili a un ambiente progettuale o un laboratorio di ricerca.
Il fulcro teorico della mostra si rifà al concetto di urbanità, teorizzato nel 1968 dal filosofo e urbanista francese Henri Lefebvre nel saggio Le droit à la ville (Il diritto alla città), nel quale contrappone un approccio di stampo umanistico alle logiche di pianificazione urbana razionaliste del XX secolo. Le opere allestite espongono il personale punto prospettico che gli artisti hanno adottato su Milano e invitano a riconsiderare la città attraverso azioni simboliche e concrete.
Il visitatore è accolto all’ingresso dello spazio da Due (2017 – 2019), una tenda composta da inserti di plastica colorati e concatenati, opera di Riccardo Giacconi. Le tessere compongono una superficie sulla quale si delineano, su sfondo verde, 16 planimetrie di appartamenti edificati per l’utopica impresa immobiliare del quartiere satellite Milano 2, progetto tanto avanguardistico quanto controverso e fallimentare. g. olmo stuppia propone una rappresentazione metaforica di Milano creata appositamente per la mostra, Untitled (Se Milano ha trafitto il suo cuore) del 2021. Attraverso uno specchio che offre la visione ribaltata di alcuni elementi identitari della città quali il Duomo, la Torre Unicredit e la ringhiera tipica dei palazzi popolari, il visitatore è invitato a guardare Milano da una prospettiva insolita e a spostare gli elementi a piacere. Ben visibile sopra l’installazione un elemento che solitamente è celato dalle acque: il fango del fiume Seveso, corso d’acqua che lambisce la città, prezioso ma anche portatore di sventure per la frequenza delle sue esondazioni e la quantità di sostanze chimiche che trascina a valle. Il rumore di un motore accompagna una panoramica notturna di una Milano che si spegne senza completamente addormentarsi.
Il video di Grazia Toderi (Milano, 2005) si presenta come un’immagine satellitare che, modificando e ruotando l’inquadratura, indaga la planimetria cittadina. Dei bagliori creano costellazioni intermittenti, indicano i punti nevralgici di Milano e le sue circonvallazioni, mettendo in luce la concentricità dello sviluppo storico urbano.
Al piano superiore un grande tavolo accoglie una rassegna di libri e materiali che ha animato la genesi e alimentato lo sviluppo della mostra. I testi sono lasciati alla libera consultazione dei visitatori come forma d’invito a ripensare il futuro della città. La teoria che le metropoli del passato – e quelle del presente – non dovessero seguire soltanto logiche funzionaliste è stata ripresa da una moltitudine di pensatori del secolo scorso e contemporanei. L’attualità delle proposte teoriche degli anni ‘60 e ‘70 è anche purtroppo motivata dalla mancata attuazione delle stesse, e la loro centralità nel dibattito contemporaneo conferma l’emergenza della riflessione e l’importanza dei contributi degli artisti visivi. Alle pareti sono appese quattro fotografie che testimoniano la performance Volver che Giorgio Andreotta Calò fece nel 2008 nel quartiere di Lambrate. A bordo di un barchino appeso a una gru, compie una simbolica traversata del cielo sul quartiere che in quegli anni era investito dal fenomeno della gentrificazione. Elisa Giuliano e Chiara C. Siravo racchiudono e condensano in un’architettura in miniatura (Cosa da poco, 2021) varie ricerche condotte sui luoghi della città deputati all’educazione femminile, sia ecclesiastica che laica. Improntata su una scuola media del quartiere di Affori che per prima istituì, negli anni ’70, le 150 ore di studio serali per le donne e il convento di clausura di San Paolo Converso, la riflessione si sposta sul tema della libertà, tanto emancipatrice se conquistata attraverso l’istruzione, quanto sacrificata se guadagnata ricorrendo all’autosegregazione.
Il video Memoria esterna (2007) del collettivo ZimmerFrei sembra sfiorare i principi della psicogeografia. Delle sequenze creano una mappatura esperienziale della città, montaggi di video e suoni fanno da sfondo a racconti di vicissitudini, approdi e trasbordi nella città meneghina; le narrazioni a volte sono vicende ordinarie, altre volte episodi avvincenti, tutte egualmente importanti poiché compongono la vera trama del tessuto cittadino, fatta primariamente di ambienti vissuti e non di luoghi progettati. Alessandro Calabrese ha composto il collage fotografico Eleven streets in Milan that don’t exist on Google Street View (2021). Palesando i limiti della strumentazione tecnologica, il lavoro critica la tendenza dell’uomo all’onniscienza e allude al ritorno a una conoscenza diretta e fisica dello spazio; invita quindi a riscoprire gli spazi urbani attraverso un “esserci” sensoriale e non solo tramite un generico “vedere”. Anche Self Portrait From a Surveillance Camera (2021), realizzato lungo il Naviglio Grande da Irene Fenara, ridiscute la prevaricazione della tecnologia e i principi che sottendono la sua azione assoggettatrice. L’autoritratto è stato generato tramite la decriptazione dei codici di sicurezza di una telecamera di videosorveglianza privata, in questo modo l’artista si impone come protagonista, e non come passante inconsapevole nel paesaggio urbano iper-controllato. Il ruolo dell’occhio artificiale viene così rovesciato da attore discreto che vede tutto a oggetto passivo dello sguardo umano. Internazionale Corazon (2019) è un abito utilizzato per azioni performative e testimonia l’indagine sociale che Francesca Marconi ha condotto sulle minoranze latino-americane rintracciabili nei dintorni di via Padova. Il costume non è la trasposizione etnografica di un abito folkloristico ma è il risultato delle indicazioni sartoriali fornite da individui che spesso hanno solo una memoria indiretta delle tradizioni di origine, poiché appartengono a gruppi di immigrati di seconda generazione.
Le operazioni messe in atto dagli artisti e applicate alla Milano contemporanea possono effettivamente richiamarsi a teorie della filosofia novecentesca che opponevano all’urbanistica modernista pratiche quali il détournement e la deriva, introdotte dalla corrente dell’Internazionale Situazionista. Il coinvolgimento del comportamento umano nelle pratiche artistiche, lo stravolgimento e il reimpiego creativo di forme architettoniche, la conoscenza della città attraverso un’esplorazione spontanea ma consapevole, sono attività che riportano l’attenzione sulla vita quotidiana dei cittadini. L’invito dei curatori è quello di non farsi distrarre dalle illusioni di chi vuole una città ridotta a vetrina ad uso e consumo di coloro che intasano e depredano il centro cittadino nei weekend, ma di pretendere che lo spazio che quotidianamente si vive sia un laboratorio collettivo. Solo così si potrà dare torno a chi afferma che «Milano non è la verità».