Minimalismo e architettura: McArthur Binion e Sol LeWitt

di - 3 Gennaio 2022

Quando lo spazio è opera d’arte, com’è la casa Corbellini- Wassermann in Viale Lombardia 17, progettata dall’architetto Piero Portaluppi (1934-1936), la sede espositiva milanese di Massimo De Carlo inaugurata nel 2019, dagli interni del piano nobile concepiti come una sequenza di ambienti non lineari, impreziositi da una varietà di materiali policromi e pavimentazioni in marmo, le mostre diventano uniche nel loro genere. Come nel caso di McArthur Binion – Sol LeWitt in collaborazione con il Sol LeWitt Estate (esecutori ufficiali delle sue opere site-specific), in cui architettura e arte sono convergenti e acquistano più valore e significati diversi.
Dalle pareti d’ingresso della prestigiosa galleria, completamente decorate con un disegno a tempera che configura il territorio della pianura padana con i suoi borghi, la sua fauna, fino ai Wall-Drawings delle sale successive di Sol LeWitt (1928-2007), pioniere dell’arte concettuale e del Minimalismo negli anni’60, incluse le opere post-minimaliste di McArthur Binion (1946), tutto è paesaggio.
Il perché lo si capisce attraversando gli interni della galleria, un capolavoro dell’architettura razionalista, dove per la prima volta si confrontano due artisti profondamente diversi, ma simili nel loro linguaggio visivo e lineare, in cui la griglia, la geometria della superficie demarcano inedite attitudini costruttive-spaziali.
Nel 1973 Binion si trasferisce da Chicago a New York, all’epoca centro della scena minimalista, dove lo stesso anno il suo lavoro fu esposto presso Artist Space in una mostra a cura di Sol LeWitt e Carl Andre. L’obiettivo di Binion già dagli anni ’70 è di trovare alternative intorno al linguaggio minimalista, includendo materiali personali, prima non sperimentati.

McArthur Binion Sol LeWitt, vista della mostra. Courtesy MDC

Le sue opere in mostra, l’ultima di una longeva collaborazione con la galleria iniziata nel 2017, appartengono al corpus più ampio di lavoro intitolato DNA. In questa produzione si vedono utilizzati documenti personali, tracce autoreferenziali, quali fotografie e rubriche come scacchiere, sopra le quali l’artista interviene con pastelli e olio pressato. Per esempio in Altar (2020) si distinguono le pagine della sua rubrica telefonica di quando l’artista viveva a New York negli anni’70. Healing:work (2020) sono opere in cui il colore monocromo si intreccia ad una superfice di carta composta da quadrati ripetuti di fogli presi dalla sua agenda personale o da altre fonti, compresa una fotografia della sua casa d’infanzia; è nella pratica dell’artista afroamericano inglobare oggetti unici come tracce del suo vissuto ad altri materiali, compreso il suo certificato di nascita o di fotografie di linciaggi razziali, in una griglia ripetibile all’infinito, in cui i riferimenti autobiografici innestano una riflessione più ampia sul ruolo dell’arte e il tempo.

McArthur Binion, Altar, 2020, courtesy MDC

Binion espone opere raccolte sotto il titolo Modern: Ancient: Brown, come il nome della fondazione di Binion, nata nel 2019 a Detroit col fine di promuovere il lavoro di artisti black nel panorama artistico contemporaneo. E nel clima di Black Lives Matter e di emersione di razzismi mai del tutto sopiti, il suo lavoro visivo e narrativo insieme, induce ancora di piĂą a riflettere sulla lunga fase post colonialista che stiamo vivendo. La sua personale ricerca della griglia pittorica posta in dialogo con elementi autobiografici si impagina perfettamente come un grande mosaico astratto nella cornice geometrica preesistente della galleria milanese che comprende la pratica pittorica, scultorea e architettonica; ma con quale opera lo scoprirete andando a visitare la mostra; fate attenzione a Horizontal Progression (1985).

Sol LeWitt, Horizontal Progression, 1991

Di Sol LeWitt sappiamo tutto ed è stato scritto come e perché l’artista creava “il più possibile opere bidimensionali”, evitando la profondità con i iconici wall drawings, ma quelli realizzati nella galleria di MCD dalle eleganti forme lineari a pastello del 1981, stupiscono per inattese soluzioni di integrazione tra opera e architettura, composte da una selezione prestabilita di forme lineari in cui il loro numero e posizione sono scelti durante il processo di creazione e, paradossalmente sembrano sempre stati lì come gli affreschi dei maestri del Rinascimento.
Il Wall Drawing#589 A (1989), valorizza l’aspetto costruttivo del colore come avviene nella produzione tardiva di LeWitt, soprattutto dopo il suo soggiorno a Spoleto (1980), dove scopre gli affreschi dei maestri Filippo Lippi, Giotto e Piero della Francesca. La sua personale tecnica dell’affresco, volta a superare i confini tra pittura e architettura, irradia sulle pareti della galleria milanese alterazioni di percezione dello spazio e dialoga armonicamente con anomali skyline di Binion. Così dall’incontro di questi maestri del modernismo del XX secolo si aprono riflessioni sull’importanza della superfice, modularità, geometria e profondità tra una linea e l’altra, in cui le parati e gli ambienti ampliano modalità di esplorare lo spazio circostante con un approccio rigoroso ma libero.

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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