Qualche settimana fa, Michael Rakowitz aveva chiesto al MoMA PS1 di New York di mettere in pausa una sua opera video, in esposizione per “Theatre of Operations: The Gulf Wars 1991-2011”, ampia mostra dedicata all’impatto delle operazione belliche sulla rappresentazione di una determinata area geografica. L’artista di origini irachene, che abbiamo recentemente visto anche al Castello di Rivoli, protestava contro la filantropia tossica di Larry Fink e Leon Black, due membri del consiglio di amministrazione del fratello maggiore del PS1, il MoMA. Ma il MoMA non ha mai rispettato la richiesta di Rakowitz, che così, sabato, si è presentato al museo e ha messo in pausa il suo video, affiggendo, accanto all’opera, la sua dichiarazione di intenti. «Ho deciso di premere il pulsante Pausa sul mio video, RETURN, in modo da poter discutere di alcuni eventi recenti», si legge nella dichiarazione di Rakowitz.
«Gli attivisti hanno chiesto a Larry Fink, CEO di BlackRock, di far uscire BlackRock e le sue società affiliate, dalla Geo Group e Core Civic, società che gestiscono istituti di reclusione. Perché? Perché queste compagnie sono responsabili di un sistema carcerale basato su razzismo, che ha reso gli Stati Uniti lo Stato con il numero più alto di reclusi al mondo. Inoltre, BlackRock ha acquisito miliardi di dollari di azioni nell’industria delle armi», spiega l’artista che, per ripremere play, chiede a Fink e Black di disinvestire da queste compagnie, oppure al MoMA di allontanare Fink e Black dal CdA.
Ma la storia non è finita qui. Appena Michael Rakowitz ha lasciato il MoMA PS1, il museo non solo ha riavviato il video ma anche rimosso la dichiarazione, dando prova di non aver rispettato tanto l’istanza politica che quella più propriamente artistica, visto che RETURN è un’opera iniziata nel 2004 e ancora in corso, quindi, suscettibile di modificazioni e altri interventi. Quali, per l’appunto, una pausa allo scorrimento delle immagini o l’aggiunta del testo di una dichiarazione. «La rimozione del testo e la decisione del museo di riavviare il video danneggiano il mio lavoro», ha dichiarato Rakowitz ad Artnet. «Ho detto ai curatori e al direttore del PS1 che la pubblicazione della mia dichiarazione e la pausa del video fanno parte della storia di RETURN, così come il legame tra i membri del consiglio del MoMA e queste società che, con la loro attività , incidono anche sulla situazione in Iraq», ha spiegato l’artista, che nella dichiarazione ha motivato anche la scelta di rimanere.
«L’opposto di Return è Depart, partire, che significa dividere, separare, lasciarsi, andare lontano. Ma io vorrei rimanere in “Theater of Operations” e non partire. Ciò che rende eccezionale questa mostra è l’aver messo insieme opere d’arte realizzate durante le guerre del Golfo e in reazione a queste, da artisti provenienti da tutto il mondo, con un focus sugli artisti iracheni che hanno continuato il loro percorso artistico nel mezzo di traumi e difficoltà . Io sono onorato di essere stato inserito tra tutti questi artisti che ammiro, provenienti dalla patria dalla quale la mia famiglia è stata costretta a partire, negli anni ’40. Esporre delle opere in questo contesto è un fatto rilevante. Inoltre, non deve essere l’arte ad allontanarsi dal museo ma sono le relazioni disfunzionali e la filantropia tossica a doversene andare». Una presa di coscienza lucida, peraltro motivata da evidenti ragioni personali e famigliari – ricordiamo, inoltre, che proprio al PS1 si è svolto il primo grande progetto di Rakowitz, nel 2000 – con la quale è difficile non essere in accordo. E anche un utile ribaltamento del punto di vista, rispetto a movimenti di protesta piuttosto simili.
Spesso, nelle opere di Rakowitz, la dimensione intima, individuale, ritorna per raccontare storie più grandi. In particolare, per RETURN, l’artista si è ispirato all’attività di famiglia, che gestiva una società di import export, prima a Baghdad e poi a New York. Nel 2004, in pieno conflitto, Rakowitz riaprì l’esercizio, chiuso fin dagli anni ’60, reinterpretando i viaggi dei piccoli beni deperibili, i processi di spedizione e ricezione, come una metafora delle tribolazioni dei profughi. Il negozio, che ha sede a Brooklyn, è tuttora attivo.
Bisogna evidenziare che nel PS1 opera un board distinto da quello del MoMA. La direttrice del PS1, Kate Fowle, il curatore capo Peter Eleey e la curatrice di “Theater of Operations”, Ruba Katrib, avevano già sottolineato questo aspetto in un incontro con Rakowitz lo scorso novembre e si erano offerti di ospitare un incontro che mettesse in evidenza le preoccupazioni sollevate dall’artista che, però, ha rifiutato, dicendo che «sarebbe stato più convincente coinvolgere direttamente le persone e le società interessate dagli investimenti di BlackRock». Insomma, il braccio di ferro va avanti.
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