Monica Carocci si forma nel contesto artistico italiano degli anni ‘80 e ‘90 tra Roma, città in cui nasce, e Torino. Riduttivo definirla meramente una fotografa, piuttosto una personalità dalla forte impronta pittorica: una vera artista che si esprime per mezzo della fotografia.
Inizia ad affermarsi artisticamente discostandosi dall’oggettività della fotografia ma attraverso lavori fatti da immagini e visioni consuete non immediatamente riconoscibili. “Cerco di guidare la luce ottenendo immagini personali, le mie fotografie sono le immagini del mio pensiero. Il tempo passato in camera oscura è il tempo passato ad inseguirle. Il risultato spesso è casuale, ottengo risultati diversi da quelli di partenza, vado avanti per tentativi ed errori, anche perché io continuo a vedere immagini dopo lo sviluppo del negativo”, dice l’artista.
Non è la fotografia nella sua perfezione tecnica e formale ad interessarle ma l’immagine ultima frutto di successive manipolazioni di tipo pittorico: abrasioni, aggiunte, cancellature, variazioni cromatiche fissate in un ultimo scatto e nella stampa finale in bianco e nero. La fotografia diventa un meccanismo che dissimula, sovrappone, deforma il reale collocandolo in una dimensione di indeterminazione ed evocazione.
L’artista torna, dopo quattro anni, a esporre all’interno dell’ambiente a lei familiare della Galleria Francesca Antonini Arte Contemporanea di Roma, in un ambiente candido e al tempo stesso luminoso che focalizza l’attenzione del visitatore senza distrarlo esclusivamente sulle opere. La mostra si colloca come una significativa parentesi produttiva che ha arricchito la sua ricerca sotto un altro punto di vista.
Costretta ad una situazione di isolamento fisico dovuto all’emergenza pandemica, l’artista ha rivolto il suo metodo, da sempre improntato alla fotografia analogica, a condizioni lavorative più “istantanee”: il suo orizzonte artistico è obbligato a ridimensionarsi al luogo in cui vive, per l’impossibilità di raggiungere la camera oscura.
L’artista riprenderà ad utilizzare una nikon ad infrarossi, già sperimentata anni addietro nella documentazione di un lavoro in Uganda, cominciando a rivolgere il suo sguardo verso ciò che la circonda e che le è familiare attraverso un occhio capace di captare un “nuovo mondo” di sperimentazione artistica. Ma a differenza dei suoi precedenti lavori, la trasformazione, che prima avveniva in fase di lavorazione, adesso avviene estemporaneamente nello scatto, senza l’elaborazione della materia fotografica. L’elemento pittorico, non reale, è di grande impatto visivo e viene reso attraverso la capacità dell’infrarosso di reagire alle variazioni di luce e temperatura e di imprimere sulla materia tonalità antinaturalistiche.
Confinata nella città in cui vive, l’artista troverà sollievo emotivo ed espressivo rivolgendo la sua attenzione alla natura che la circonda: al momento dell’allentamento delle restrizioni comincerà a fotografare dapprima fiori, che testimonieranno la fase più legata al suo linguaggio canonico e successivamente scenari naturali e paesaggi che diventeranno il luogo di sperimentazione e ricerca espressiva, nonché di rifugio dall’isolamento. Occhi nuovi per nuovi territori da svelare, luoghi in cui rifugiare la propria immaginazione, unica possibilità di evasione.
In questo modo il filtro che attiva la fantasia è il rovesciamento della prospettiva, l’inversione del punto di vista, l’utilizzo di colori onirici, affinché l’occhio abbandoni la strada della realtà e inizi a sconfinare altrove. Una volta compiutosi il rovesciamento, dentro e fuori l’immagine, tutto appare traslato: la terra si perde nel cielo, le nuvole si riflettono nell’acqua; la natura che abbiamo sempre creduto di poter dominare adesso ci appare irreale. Siamo in crisi, abbiamo perso certezza e l’unico modo per ritrovarla è dare immagine a questo mondo di cui abbiamo perso i confini per riaffermare la nostra presenza.
Inaugurata durante l’ultimissimo periodo di chiusura dei musei, sarà possibile visitare la mostra fino al 5 giugno.
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