Nei caratterizzati spazi del cinquecentesco Palazzo Caracciolo d’Avellino a Napoli, sede della Fondazione Morra Greco, è possibile vedere Tanz Auf Dem Vulkan, ampio progetto espositivo a cura di Giulia Pollicita. Fotografando uno spaccato della collezione d’arte contemporanea di Maurizio Morra Greco, la mostra traccia un percorso nell’arte internazionale dai primi anni 2000 a oggi, prestando un’attenzione particolare alla scena artistica centro-europea e statunitense. Una selezione di opere che interrogano l’eredità del Modernismo attraverso una lettura della società e della vita individuale nel tardo capitalismo.
Il titolo, che in italiano è tradotto in Danzando su un vulcano, è l’anticamera di alcune delle tematiche affrontate dalla curatrice in questa complessa proposta narrativa della collezione. Un riferimento a un musical tedesco del 1938 ispirato a una frase pronunciata dall’allora ministro degli affari esteri della Germania, Gustav Stresemann, che definì la società tedesca nel mezzo di una turbolenta situazione di cambiamento. La frase è stata in seguito ripresa come titolo di un docu-film del 1998, Berlin Techno Sex: Tanz auf dem Vulkan, incentrato sulla scena gay berlinese motore della sottocultura techno, attraverso il mondo del clubbing: uno scenario di fuga e liberazione che ha caratterizzato più in generale lo spirito dei primi anni duemila.
La precarietà, l’instabile equilibrio, la danza e il movimento dei corpi in relazione alla scena del clubbing e delle sottoculture di fine millennio sono, per la curatrice, i punti di partenza per leggere quella che è stata la produzione artistica internazionale in un momento di transizione a ridosso della caduta del muro di Berlino. I simboli e le icone della modernità, indebolite dalla perdita tardocapitalista delle certezze, puntellano il progetto espositivo che si sviluppa sui tre piani della Fondazione: partendo dalle complesse e affrescate sale del primo livello, Tanz Auf Dem Vulkan colpisce per l’ibrida selezione di media artistici, presentati secondo un altrettanto eclettico concept espositivo che fa dell’escamotage una caratteristica peculiare.
Non è la cronologia a guidarci attraverso il percorso, ma un’assonanza compositiva e concettuale. La dualità pubblico/privato sembra alternarsi senza soluzione di continuità nella ricerca artistica di una generazione che diventa adulta a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, nella relazione del singolo con l’ambiente e con una società in rapido cambiamento. I risvolti dei movimenti sussultori e febbricitanti della transizione da un millennio al seguente non sembravano essere prevedibili.
Il rapporto intimo con lo spazio, come luogo del corpo, è evidente nell’installazione Garden Path Sentence (2021), di Win McCarthy (USA, 1986), riadattata dallo stesso artista per una sala del primo piano della Fondazione: una sorta di ritratto-autoritratto attraverso oggetti personali, della cultura materiale effimera e del paesaggio urbano che tentano di misurare il perimetro della vita individuale.
Si torna su queste vibrazioni salendo al secondo piano, nella sala dedicata al grande armadio, soluzione espositiva progettata dalla curatrice con lo studio d’architettura LAS RICAS. Questa familiare struttura, composta dall’assemblage di arredi recuperati nelle case napoletane, è il supporto su cui inserire, in un verso, l’installazione video a doppio canale Above The Grid (2000), di John Pilson (USA, 1968): un discorso sull’emancipazione dell’umano rispetto al lavoro meccanico e ripetitivo, superando la fredda rigidità della griglia. Nell’altro verso, quello frontale, fatto di chiuse ante specchianti a cui esporre i nostri corpi, guardiamo invece a un interno spazio dell’abito in cui sono inserite Everything is Wrong (2001) e Angst (2000), due ammiccanti gouache dalla dimensione di un poster dell’artista Henrik Plenge Jakobsen (Danimarca, 1967).
Come se avessimo appena lasciato il nostro spazio della casa, vestiti di tutto punto per la festa, torniamo su quell’origine musicale e ritmica della danza su un vulcano, ma soprattutto sui dispositivi elettronici che ne hanno caratterizzato l’estetica e il funzionamento: il giradischi, soggetto, o meglio oggetto ready made, scelto da Lothar Hempel (Germania, 1966) per Frost (2002), e da Jim Lambie (Scozia, 1964) per una declinazione scintillante, Hardcore (2000).
Rovine di una festa, brandelli e frammenti digeriti e risputati fuori: frazioni di un momento di fermento collettivo in cui, alla nascente interconnessa società dei consumi, ci si poteva opporre tramite forme di protesta e ribellione che contemplavano il rito collettivo del party e del rave, l’assunzione di droghe sintetiche, le tute acetate e le politiche del no-logo dei club, raccontate dalle light-box di Daniel Pflumm (Svizzera, 1968).
A cavallo tra on e offline, sempre il corpo: femminile e autorappresentato da Candice Breitz (Sud Africa, 1972) che si filma riflessa sui finestrini dello scomparto di un treno in viaggio in Me Myself I (2001).
Oltre il video e l’installazione, spontanea o scultorea, il percorso espositivo sull’instabilità di una generazione turbata dalla perdita di coordinate e schemi, ci mostra anche esempi di una pittura preziosa, estremamente contemporanea: gli oli su tela degli ultimi anni ’90 di Ryan Mendoza (USA, 1971), Dead bitch e Snip, snip, snip sono ritratti di una donna uccisa e di una donna omicida ricavati da pagine di quotidiano; quest’ultima ci osserva con fare severo mentre riposiamo sul grande divano in una sala in penombra.
La notizia, il bombardamento mediatico che avrebbe, da quel momento in poi, caratterizzato la vita quotidiana attraverso i rumorosi canali di un internet sempre più ramificato, sembra celarsi dietro lo schermo chiuso e muto rappresentato dalla pittura silenziosa di Miltos Manetas (Grecia, 1964), POWERBOOK (1999). Come per scherzo, a chiudere un millennio e ad aprirne un altro, la solitudine nel villaggio globale rappresentata dall’annientamento dell’identità dietro lo schermo chiuso del laptop di Manetas e nelle copertine patinate, scelte per i collages da Jonathan Horowitz (USA, 1966).
Elaborare un’ipotesi critica, a partire da una collezione complessa, è la sfida a cui risponde, per il secondo anno di seguito, la serie di mostre-racconto Tales from the Morra Greco Collection. Tanz Auf Dem Vulkan non è una mostra lineare, a cui approcciare senza impegno. Giochi di rimandi e dialoghi su diversi piani ci chiedono un necessario esercizio critico nell’azione del guardare, per cercare le varie e ricche possibili linee di lettura, molte delle quali ancora aperte a innumerevoli punti di domanda.
Tanz Auf Dem Vulkan. Storie dalla Collezione Morra Greco, a cura di Giulia Pollicita, include opere di Candice Breitz, Adriano Costa, Lothar Hempel, Evan Holloway, Judith Hopf, Jonathan Horowitz, Jim Lambie, Miltos Manetas, Win Mccarthy, Ryan Mendoza, Helen Mirra, Henrik Plenge Jakobsen, Daniel Pflumm, Hannah Starkey, Simon Starling, John Pilson, Tim Rollins & K.O.S., Hiroshi Sugito. La mostra è visitabile dal giovedì al sabato, dalle ore 10 alle 18, fino al 27 gennaio 2024.
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