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Un tuffo nell’iperrealismo: le sculture di Carole Feuerman al Made in Cloister di Napoli
Arte contemporanea
A volte capita di guardare una mostra appena inaugurata ma di scriverne poi dopo molto tempo. Ed è una sensazione strana. Le immagini, le forme, le storie che sono dietro a certi allestimenti rimangono prepotentemente dentro. Si avvinghiano alla tua memoria, ne diventano parte attiva, emergono ogni volta che vedi altri lavori. Un innesto che può durare del tempo e da cui ti liberi quando finalmente ci fai i conti. Ma non sempre. A volte incontri qualcosa di diverso, di mastodontico e allusivo, malinconico e raggiante allo stesso tempo. Una dimensione esterna, un’immagine, un’atmosfera che prende il sopravvento sotto forma di stanza interiore, ingombrante, che non si lascia svuotare, spostare via. Anzi, arrivi a pensare per un attimo che potrebbero addirittura adagiarsi, colonizzare in pianta stabile anche un luogo monumentale, dotato di una fortissima caratterizzazione e una storia secolare come il chiostro di Santa Caterina a Formiello, sede della Fondazione Made in Cloister, a Napoli. È l’effetto delle 12 grandi sculture della mostra Crossing the Sea dell’artista americana Carole Feuerman, progetto espositivo curato da Demetrio Paparoni e realizzato in collaborazione con il Gruppo di gallerie d’arte Bel-Air Fine Art.
La sensazione è quella. Sai che, anche quando queste sagome, le basi, i corpi e i volumi verranno smontati, sganciati, dissemblati, riposti nelle casse con muletti e carrucole e magari rispediti a New York, Los Angeles o in qualche altro angolo del mondo, in qualche modo rimarranno lì, dentro di te, con le loro colorazioni vivaci, la loro lucentezza cromatica, i riflessi del sole, delle nuvole o delle pareti del chiostro. Quella pelle luccicante delle nuotatrici della Feuerman rimarrà con te.
È la forza dell’artista consapevole, che invade, manu militari, i tuoi spazi sensoriali e i tuoi angoli mentali. In cambio di un’energia, una vibrazione positiva, che permane tra i nostri ricordi e dialoga con il nostro immaginario. È la forza di Carol A. Feuerman, classe 1945, scultrice nata e cresciuta a New York che, dopo gli studi alla School of Visual Arts di New York City e insieme a Duane Hanson e John D’Andrea è stata tra i protagonisti del movimento dell’Iperrealismo nella New York degli anni ‘70. Figura presentissima alla Biennale di Venezia, con lavori sparsi nei musei di tutto il mondo, come il Metropolitan Museum of Art, The State Hermitage, The Fort Lauderdale Museum of Art, The Bass Museum, The Boca Ratum Museum o nella Forbes Magazine Art Collection e con opere pubbliche a Central Park e SoHo a New York, all’Avenue George V di Parigi e nell’Harbour City a Hong Kong.
«Non è l’attimo fuggente che voglio catturare, ma il sentimento universale che si coglie in quel momento». È il segreto che l’artista americana ci bisbiglia, passeggiando tra i suoi bellissimi lavori. Una sospensione emozionale, interrotta unicamente da un rumore di sottofondo, una sorta di allucinazione uditiva. Il suono di un elemento assente ma onnipresente; quell’acqua che si intromette non solo a cornice delle figure femminili in costume da bagno e cuffiette, incastonate nelle pareti, appoggiate sulle basi, sedute in pose plastiche e muscolari. Ma che allaga di sensazioni non soltanto il chiostro ma anche i nostri sensi e le nostre profondità.
Non è soltanto un effetto teatrale, un trompe-l’œil ingegnoso e otticamente avvolgente. Se la consistenza dei capelli, dell’adipe, dei costumi, le gocce, i riflessi, gli aloni e le pieghe esprimono una chiara fenomenologia della presenza (probabilmente imperfettibili dal punto di vista tecnico) è la nostra recettività che le rende vive, dialoganti con la parte più nascosta e intensa di noi.
«Il meccanismo cerebrale sta al pensiero e alla coscienza pressappoco come il via vai degli attori sulla scena, i loro gesti, i loro atteggiamenti stanno al testo che essi interpretano».
Se per il filosofo Henri Bergson gli engrammi, la materia dei ricordi, le tracce di Rna, determinano il substrato emotivo e reattivo di pensieri e azioni coscienti, così la resina, il gesso, il bronzo dorato di queste opere assumono le sembianze di un alfabeto che, attraverso le tensioni, le espressioni e le pose fraseggiano un testo che rischiava di perdersi in qualche anfratto dell’inconscio della Feuerman.
«Voglio che lo spettatore completi la storia guardando la mia scultura, che rifletta e si emozioni». Così il chiostro monumentale, che si trasforma per l’occasione in una vasca di amplificazione sensoriale, in cui il ritmo, il suono e il colore prodotti dalla mano sapiente della Feuerman stimolano, risvegliano la nostra naturale tendenza, onirica e creativa, di immergerci in queste acque galvaniche per accogliere chi ci è accanto e ci racconta la sua storia. E per salvare dal deterioramento, dall’oblio, dall’inabilità al ricordo, “appagati e sopravvissuti”, le nostre di storie, vissute degnamente solo se immerse in questo liquido e deterse da ogni paura e angoscia.
«Grazia, tranquillità e sensualità».
Se in altri artisti iperrealisti come Duane Hanson il clamore e lo squallore dei ritmi e dei rituali postmoderni si specchiavano nelle vetrate svuotate e assenti della Grande Mela di Richard Estes, Feuerman sceglie tutt’altra angolatura. In una società sempre più schiacciata da caligynephobia, da una sindrome diffusa di Stendhal, dove perfino Barbie, simbolo di potenza, benessere e indipendenza viene normalizzata e arruolata nell’esercito del politcally correct, la scultrice newyorkese non solo non si sottrae a quell’ancestrale lavoro di auto-creazione dell’artista, che, soglia tra due mondi, tra materia e sogno, realtà e fantasia, ricrea il proprio sé, prestante, olimpico e infinito. Ma ci costringe a farci i conti, ad accogliere i suoi ricordi senza potersene più liberare. E cosi rimarranno nella nostra mente le nuotatrici di Carol A. Feuerman. Prestanti, olimpiche e infinite.