Era schivo, non particolarmente estroverso. Parlava poco di sé, e parlare poco di qualsiasi cosa in certi ambienti non è mai d’aiuto: l’arte e i suoi derivati infatti amano il chiacchiericcio, anche quello più inutile. Come non bastasse se n’è pure andato presto. A riprova che, almeno sul breve periodo, il post mortem non mette automaticamente il turbo alla fama – e quotazione – di un artista.
Avere un certo piglio in arte, dimostrando attraverso le proprie opere di capire dove si sta andando, però paga. Se quindi siamo qui a parlarvi di Nanni Valentini (Sant’Angelo in Vado, 1932; Vimercate, 1985) è perché certe personalità meriterebbero di uscire dal purgatorio della “critici-curatori and friends”, e salire nel paradiso dei nomi sulla bocca di tutti. Gli opening in questo senso sono più di un’occasione per far presenza, e risolversi la serata; sono un termometro, per capire il posizionamento di un artista – anche assodato – nella borsa valori del contemporaneo. E magari fugare il dubbio che capacità e contenuti possano essere inversamente proporzionali alla notorietà.
Avete scoperto l’acqua calda direte voi. Però fa strano che, di fronte al riconoscimento di una certa qualità, la frase intercettata più di frequente sia “Questo artista non lo conoscevo”. Addirittura una “collega” di Valentini – non facciamo nomi, ché il pettegolezzo spiccio è poco elegante – si stupiva di non sapere chi fosse. Indicativo, no?
Il periodo di produzione presentato da ABC-ARTE per “L’interspazio tra il visibile e il tattile” – a cura di Flaminio Gualdoni, fino al 5 gennaio 2020 – va da metà anni ’70 alla sua scomparsa. L’ultimo di attività, quello dai cui provengono 38 opere che universalmente restituiscono un Valentini signore della materia. Che la tratti come scultura o pittura poco cambia, la percezione è che le due cose siano talmente intrecciate nel suo modo di fare da diventare inscindibili. Modo di fare, non semplice poetica.
Quest’ultima infatti in Valentini è un’astrazione che non vale quanto la manualità del fare, del sentire la materia che si va a trattare. Nelle sculture orizzontali – aperta parentesi: il parquet marroncino medio non è loro amico – si palesa ad esempio il rapporto d’amicizia con Giuseppe Spagnulo, che proprio da Valentini aveva imparato a maneggiare la terra. E nell’affinità elettiva tra i due si percepisce la differenza categorica. Spagnulo è perlopiù concreto, pesante; Valentini quasi platonico, innamorato di una terracotta che trattava sempre con buone dosi di misticismo. Anche alleggerendone la portata, facendola fluttuare nella scia di un Angelo frutto di una simbolizzazione tutta personale. O producendola nell’ascensionale Nascita di un angelo che sfida la gravità. Recuperando l’iconicità del fungo atomico su Nagasaki.
Invertendo il teorema Valentini cambiava materia. Creava collage su carta monumentali strappando pezzi di cartone a cui dava un peso; uno spessore inusuale e concorde al peso di una pennellata graffiante, un segno grafico veemente. Il collage secondo Valentini è un bassorilievo pesante nell’incidenza visiva, leggerissimo nei suoi componenti. Ed è la prova che quell’interspazio citato nel titolo della mostra, a sua volta ripreso da un testo di Valentini, probabilmente l’artista sapeva dove andarlo a cercare.
Tra visibile e tattile prende piede anche la volontà di superare ogni limite artistico, con lacerazioni che sanno di un Lucio Fontana – altro artista con cui aveva avuto a che fare – non clonato. Il taglio di Valentini è un’apertura meno stylish; è la dinamica più fisica di uno squarcio in cui Ugo Mulas non avrebbe ritrovato l’eleganza gestuale di Fontana (anche se la mitica sequenza fotografica era una “sceneggiata” messa su ad hoc, ma va be’). E come sempre per Valentini anche il taglio è una formula trasversale alla materia. Più che concetto spaziale un concetto ideale; un “oltre supporto”, che nelle garze della serie Trasparenze (pieni anni ’70) è sostenuto anche da prepotenti aggregazioni – simili a nebulose – di pigmento monocromo. È un oltre puntato alla de-materializzazione dell’opera pittorica. Nonché alla sua emancipazione in quanto “oggetto a parete”.
Valentini non era solito rimangiarsi i credo che lo spingevano a ricercare determinate situazioni, anche se i mezzi utilizzati andavano a modificarsi. Per questo ha senso una retrospettiva in cui ci si propone di circoscrivere alcune serie (è il caso delle Trasparenze), ma non di dare stretta organicità cronologica. Conta il pensiero, e quello di Valentini aveva un’identità precisa. Che pretendeva schizzare fuori ad ogni lavoro.
Valentini è un domatore della materia, forse il più sentito e convinto della sua cerchia. Si capisce che per lui la materia è il mezzo, e avere un pensiero trasversale ad essa il fine. È il realismo per indizi di una Lettera a Pitagora, in cui il grès assume la consistenza apparente di un foglio. È la figuratività di una piccola Soglia del 1981, terracotta che racchiude tanti incavi perpendicolari a simulare i mattoni di un muro. Una soglia chiusa, una finestra murata. Squarciata però, nuovamente attraversata da un apertura trattata quasi fosse una firma. Un passaggio minimo, che in questo stato d’oggettività sa più che mai di simbolica aspirazione ad andare oltre ogni limite fisico. Niente di più esteticamente distante da una Trasparenza. Niente di più empaticamente affine.
E dire che il tema della soglia era ricorrente in Valentini. Già pochi anni prima l’artista l’aveva declinato in misura decisamente più installativa, un po’ archetipo vintage dei Gate progettati da Daniel Buren a La Spezia. Un’intelaiatura a muro di tavolette in grès; altezza 210 cm come standard abitativo vuole, sfumata d’un azzurro che sa di ultraterreno. Di paradisiaco. Ma di un paradiso ad accesso limitato, bloccato perché determinato al di là di una struttura non autoportante. Un controsenso voluto tra reale e sub-reale, conosciuto e sconosciuto; un contrasto percettivo non meno evidente dell’incavatura regolare che percorre tutto il perimetro, e stridente coi bordi materico-sfrangiati di ogni tavoletta.
Tutta la produzione di Valentini in fondo è un’azione di contrasto, a scardinare le convenzioni di una dimensione plastica già messa in crisi da Arturo Martini. A risolvere più o meno consapevolmente quella crisi dalla base; concependo, vivendo e vedendo la materia come supporto per una pratica artistica che inizia dove finisce la materia stessa. In quell’interspazio tra visibile e tattile che in fondo era la sua casa. E da cui non si è schiodato fino alla fine.
Andrea Rossetti
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