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Napoli, da Made in Cloister dieci artisti esplorano il chiaroscuro dei nostri tempi
Arte contemporanea
di Diego Osimo

Il Sol dell’Avvenir, visitabile fino al 31 maggio 2025, è il progetto espositivo che inaugura il nuovo programma biennale RINASCITA alla Fondazione Made in Cloister di Napoli, ideato e sviluppato da nonlineare – iniziativa curatoriale indipendente. Un teatro delle illusioni, dove una collettiva di artisti internazionali e locali – Alexandra Sukhareva, Anastasia Ryabova, Carmela De Falco, Clément Cogitore, Dahn Vo, Hiwa K, mountaincutters, Olga Tsvetkova, Reena Spaulings, Renato Leotta – aderisce all’accordo di mostrare un’inquieta realtà parallela, ma sincera, dove non vi sono promesse disattese come quelle che infestano il nostro tempo. Uno spazio in cui muoversi come lancette a scandire la fine delle epoche, percorrendo il quadrante del chiostro piccolo della chiesa Santa Caterina a Formiello, nel quartiere Porta Capuana.

Nel titolo della mostra, tratto da una canzone partigiana che suggerisce l’aspettativa di un domani radioso, si nasconde, in realtà, un invito più profondo a scoprire tutti i passaggi di luce e ombra che si celano negli spazi della rinascita. L’avvertenza è quella di guardare all’alba dei nuovi giorni con placida disillusione, acquisendo lucidamente la consapevolezza che quei raggi dispensatori di gioia e vitalità sono altrettanto capaci di cancellare ogni segno del passaggio umano e, con essi, ogni sogno di utopia rimandato troppo a lungo. Ed è, infatti, questo stesso sole capace di inaridire gli oceani e ferirli con enormi crettature a emanare una luce che corrode, un bagliore caustico a cui, invece, sembra immune lo spazio del chiostro: come un prisma ne divora i raggi, indirizzandoli per trasmutare la materia in ogni sua forma, persino in suono.

Questi lampi sembrano assorbiti proprio al centro, dove è in scena Les Indes galantes di Clément Cogitore, che fa da colonna sonora all’intera architettura dell’apocalypse joyeuse. Avvicinandosi al richiamo cadenzato dell’opéra-ballet composta nel 1735 da Jean Philippe-Rameau, si scorge la collisione tra epoche e codici orchestrata nel cortometraggio diretto da Cogitore: qui tutta la luce è completamente assorbita dagli spasmi dei corpi in penombra che “lottano” attraverso il Krump, una danza nata a Los Angeles negli anni ’90 tra i palcoscenici più violenti, che fa del corpo un archivio di tensioni.
L’energia di queste contrazioni sonore trova la sua più immediata antinomia nella campana muta di Hiwa K, The Bell Project. Se poco prima vibrati e ricochet diventano la linfa corporale che alimenta conflitti inoffensivi, ora il metallo assordante di mine e proiettili è rifuso in un solido che non emette alcun rintocco. «Suoni che abitano corpi mobili in guerra; guerra che abita corpi rigidi senza suono». Un gioco palindromo che ritorna dichiaratamente nell’intenzione dell’artista curdo di voler invertire la tendenza a fondere qualsiasi oggetto per far fronte alle smisurate necessità belliche. Il risultato finale è un oggetto irreligioso ma che può raccontare di uno scenario ben più profano: che ne sarà delle divinità se nessuno vivrà per adorarle, se nessuno potrà suonare per loro?

Eppure, ci si potrebbe illudere che in questo avvenire vi è ancora adito per il divino, intravedendo Senza Titolo di Dahn Vo: un Cristo bronzeo che giace sull’intonaco bianco che, di fatto, ritrae soltanto un’altra illusione. Una reliquia, anch’essa rifusa, che porta le mani di “un altro padre” — quello dell’artista vietnamita — che custodisce due ampolle rigogliose di Tropaeolum Majus. L’origine del nome di questa pianta —dall’unione dei termini latini tropaeum (trofeo) e majus (il più grande) — evoca la possibilità di uno scenario piuttosto peculiare: ci si aspetterebbe di ricevere in dono allo sguardo la più preziosa e opulenta ricompensa, ma il nasturzio è privo del suo caratteristico fiore e oltre la scultura non vi è paradiso. E, dunque, sembra che l’unica ricompensa sia proprio l’avvenire, offerto a chi è in grado di abitarlo, oltre la fine.

I doni della resurrezione sono, però, offerti da mani tutt’altro che divine: si tratta di mani fragili come il vetro, umane, come quelle che abbracciano l’aria densa, sulla parete opposta, in Ore tinte (Stagione fertile) del duo artistico mountaincutters. Alchimisti capaci di cristallizzare la memoria condivisa dell’aria, un’eredità che si tramanda di respiro in respiro in ogni essere vivente.
Nelle feritoie di questo spazio iridescente si innesta anche un duplice fendente performativo: l’artista russa Olga Tsvetkova, con Lo spazio come dubbio. Porta Capuana, attraverso un’irruenta coreografia/geografia, sovverte l’automatismo epistemologico che conduce a percorrere inconsapevolmente uno spazio tanto dinamico come quello che racconta, assorbendo in sé tutte le indomabili variazioni del complesso codice gestuale, sonoro e vitale della collettività.

Carmela de Falco in riflettendo, riflettendo, la voce, a partire da segni grafici che percorrono tutto il chiostro, diventa regista di voci, dove lesene e contrafforti delineano il racconto sonoro come tra le battute di uno spartito. La stessa artista con Trasmissione, attraverso un raffinato e sensibile prelievo, restituisce la rarissima circostanza del mostrare un invisibile concreto — percepibile e percettivo — offre non soltanto voci, ma anche ascolto, ai margini di una coperta di lana, dove una polimorfa coclea d’ottone attende il riscontro dell’altro.
Tra tutti questi idoli della materia — densa, nervosa o assente — ne Il Sol dell’Avvenir non vi è traccia di pittura. Le uniche manifestazioni di pigmento corrispondono agli affreschi cinquecenteschi, che resistono e osservano accanto allo spettatore, dalla sommità delle alte pareti. Un impianto che deriva dalla precisa geometria espositiva ideata dalla curatrice Teresa Iarocci Mavica, sensibile alla complessità dei linguaggi, corrispondendo a ognuno di essi l’esatta ampiezza, dove eventuali contrasti sono programmati per produrre un’unità espressiva ancora più grave – come l’incontro tonale di due voci — senza che ne derivi alcuna disarmonia di risulta.