L’enorme sagoma cominci a notarla da chilometri di distanza, da Piazza Carlo III in effetti, dove riposa Palazzo Fuga, il Real Albergo dei Poveri. Gigantismo per gigantismo (alquanto inconsueto per Napoli). E più precisamente quando imbocchi Via S. Alfonso de Liguori. La presenza diventa invadenza quando entri poi a Piazza Nazionale, che tra le rotaie dei tram, il modernismo del 33° distretto sanitario dell’Asl, il campo di basket, la pista di pattinaggio e un piccolo anfiteatro ha sempre imitato atmosfere socialiste, berlinesi, non fosse per il caldo asfissiante, le aiuole abbandonate e il neapolitan power di numerose sale prove di gruppi musicali annidate per anni nel gigantesco parcheggio sotterraneo. Il profilo inizia ad assumere definizione, a esprimere particolari come vetrate, piloni, occhi, solai appesi, menti, tiranti e capelli. Avevo in mente qualche grande facciata ricoperta di murales messicani o cubani ma mai avevo visto un intero grattacielo dipinto.
Così la Torre 1 ex Enel, di 122 metri, in calcestruzzo e legamenti in acciaio, emerge tra i vecchi palazzi della Vicaria come una cupola di una cattedrale piantata al centro di una cittadina medievale. Sulla facciata vi sta lentamente prendendo forma l’ultima fatica del celebre street-artist Ciro Cerullo, al secolo Jorit. Il murales più alto del mondo raffigura la trinità partenopea degli anni ’80-’90, in rigoroso ordine di ascendenza: Diego Armando Maradona, Pino Daniele e Massimo Troisi.
Lavorato per diverse settimane, dall’alba fino a che il sole non inizia a battere, con una squadra di 5 collaboratori, l’artista di Quarto ha prima trascritto sull’intera facciata “a’ Livella” di Totò (non solo per ispirazione poetica ma anche per definire misure e distanze della superficie da dipingere con le vernici spray) e poi è passato alle figure, completate ognuna in giorni di intenso lavoro. Allargando sempre di più il campo la costruzione assume poi un’altra funzione, come uno dei due volumi che compongono idealmente la porta della “Città contemporanee dei servizi” di Kenzo Tange. Il Centro Direzionale.
«Siete qui per il furto ‘a rame?». Non sono qui per questo ma la cosa mi incuriosisce. Attorno alla torre riconosco una piccola giungla di sempreverdi mediterranea, fitta, aggressiva. Per poi scoprire che era un lavoro d’autore, del paesaggista Pietro Porcinai, con lentischi, mirti, oleandri abbandonati o lasciati liberi di crescere, propagarsi o rinsecchirsi. Come molto cose in questa città. Progettato intorno agli anni ’60, approvato nel 1974 e costruito nel decennio ’85-’95 il Centro Direzionale era parte integrante di un disegno urbanistico più ampio, che prevedeva la delocalizzazione delle fasce popolari verso i quartieri di Secondigliano e Ponticelli, un polo turistico nella zona occupata dagli stabilimenti dell’ex-Italsider e per l’appunto l’edificazione di una cittadella con sedi e uffici di importanti aziende nazionali e internazionali. Nulla di tutto questo è stato. «Un’utopia svanita, quella di Tange» (Francesca Castanò). Una città nata con la potenza straripante del calcestruzzo ma proiettata verso un futuro, quello dei servizi e del terziario, dedito alla smaterializzazione, alla riconversione fisica ma soprattutto antropologica degli ambienti e delle funzioni.
«Ieri hanno rubato del rame che era stato appena allacciato nelle condutture al piano terra. Però l’hann’ arrestate…», mi confida il parcheggiatore, che snocciola informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori sia del “graffiti” che del grattacielo, abbandonato da anni. L’opera di Jorit rientra infatti in un progetto di riqualificazione delle torri ad opera di BD Tower, consorzio di 30 imprese guidato da Davide Bucci, che prevede un re-design di tutti gli spazi e le funzioni della Torre. Ad aver voluto invece l’opera da guinness dei primati è stato Antonio Carofano, membro del board di BD Tower e che scommette sulle “potenzialità inespresse” del grattacielo, progettato da Giulio De Luca, Massimo Pica Ciamarra e Renato Avolio De Martino. L’impressione però è che ci sia molto, molto da fare. Il paesaggio, tra marciapiedi abbandonati, spazzatura, scale mobili in disuso, strade e corsie veloci invase dalle rampicanti in stile Last of Us (serie tv post-apocalittica HBO) sono qualcosa di scandaloso e disturbante. Anche la rampa dove staziona a diversi metri d’altezza la gondola usata da Jorit, è ricoperta di rifiuti, bottiglie, vetri rotti, sfraveca, sacchetti di spazzatura.
A dire il vero nemmeno questo grande lavoro di Jorit sembra pensato per il Centro Direzionale, da sempre luogo di gestione, di proiezione, di visione. Come se l’antica scelta tecnica ed estetica del “vuoto architettonico”, di una materialità solida e visiva più leggera, quasi assente rispetto ai grandi pieni della City londinese, della Dèfense parigina o di New Kowloon di Hong Kong, ne avesse poi condizionata tutta l’esistenza. E come il futuristico (futuribile) Centro, così il poderoso graffito. Una volta giunti nel punto da cui si innalza, sembra scappare ai nostri occhi che tentano di coglierlo nella sua mastodontica interezza. Devi così uscire dal perimetro, cercare altri punti di vista, tornare nel quartiere. Così si imbocca via Genova, via Ferrara ma nulla, Troisi rimane sempre fuori fuoco. Infine via Giovanni Porzio. L’unico punto da cui è possibile ammirare la potenza della composizione è accanto a un service Stellantis, un grosso concessionario di auto. E finalmente, dopo tanto girare in tondo, ci si può godere lo spettacolo di questo totem che spunta in mezzo al cielo azzurrissimo di Napoli.
Svettano i famosi segni rossi sui volti dei personaggi ritratti, ferite di scarnificazione delle tribù africane che certificavano il passaggio all’età adulta e che, nel lessico dell’artista, simboleggiano il riconoscimento di un ruolo sociale e politico esemplare per la comunità. Un’arte chiara e definita, potente e senza mezzi termini. Che vive unicamente di omaggio e santificazione sociale e civile. E nel pantheon ne sono entrati tanti negli anni. Martin Luther King, San Gennaro, Che Guevara, Lucio Dalla, Julien Assange, Fëdor Dostoevskij, Nino D’angelo, Jurij Gagarin, Nelson Mandela, Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini etc. Una human tribe che ci unisce tutti, da nord a sud, da est a ovest, come ripete l’artista, che ha girato il mondo con le sue opere apprezzatissime praticamente ad ogni latitudine (eccetto in Israele ma questa è un’altra storia).
Il segno è e rimarrà potente. Bellissimo. A distanza di chilometri. Ma sfugge, ancora una volta, non tanto il senso quanto la direzione dell’operazione. Se è un nuovo inizio radioso per questa fetta di città che da sempre soffre il degrado e l’isolamento. O il sigillo indelebile e decadente, il tag finale dell’ennesima downtown abbandonata al suo destino.
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Jorit come al solito fa vibrare l'anima e la fantasia vola. Complimenti