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Nel mondo sottosopra di Sergio Vega, alla Galleria Di Marino di Napoli
Arte contemporanea
Stranger Things non è poi così strano. Il formidabile, spaventoso e inconoscibile mondo sottosopra, raccontato dalla popolarissima serie tv in onda su Netflix e abitato da famelici e ostili esseri alieni, tutto sommato, non è poi così distante, alieno appunto, dal nostro, ugualmente misterioso, denso, ramificato. Anche qui, vicino a noi, ogni cosa riconduce a un’altra e poi a un’altra ancora e continuando a seguire questo filo di associazioni, non senza qualche brivido, si potrebbe arrivare agli antipodi, in una giungla tropicale e scoprirla affine eppure, allo stesso modo, completamente altra, un “Paradiso nel nuovo mondo”. Giustapposte in un dialogo seducente e straniante, realizzate in momenti e contesti diversi, le due serie fotografiche in bianco e nero di Sergio Vega in mostra alla Galleria Umberto Di Marino di Napoli ci suggeriscono la possibilità non tanto di immaginare quanto di presentire un altro mondo, in continuità con quello abitato, già vissuto e da vivere e raccontare. Da una parte, un archivio visivo di scorci virtualmente infinito, in cui ogni frammento si ribalta nell’altro – un ramo secco e contorto che si staglia nel cielo e alcune strisce di battistrada distese sull’asfalto, un palazzo di edilizia popolare e una distesa di fusti di latta – seguendo associazioni formali evidenti ma anche piccoli segreti, particolari indefinibili ma percettibili, anche se solo in qualche sottile parte della nostra coscienza. E poi, una serie di “primi piani” immersivi e sempre più intricati della Foresta Amazzonica, in cui la presenza dell’uomo, che porta la testimonianza dell’albero caduto, della liana annodata, è una sfida all’immaginazione o al ricordo, un’ipotesi progettuale o l’incipit di un romanzo di avventure. Abbiamo raggiunto l’artista per farci raccontare di più.
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L’arte di riparare il mondo
In un testo del 2015, scritto da Marcel Schuhmacher in occasione di una mostra da Karsten Greve in cui esponevi lavori simili, si fa riferimento a un testo che da anni ho sul comodino e che, ogni tanto, apro a una pagina casuale, “Zen and the art of motorcycle maintenance” di Robert M. Pirsig. Ci sono anche altri riferimenti letterari nella tua ricerca e, nello specifico, nelle opere in questa tua ultima mostra a Napoli?
«Il legame con il libro di Pirsig si è avviato a partire dal duo di fotografie nella serie di “immagini accoppiate”, in cui alcune persone stavano riparando una motocicletta. Il titolo si riferiva a un modo di affrontare la quotidianità, un modo per gestire la crisi delle cose che non funzionano. Pirsig non sostiene la rottura e il rovesciamento delle strutture in modo rivoluzionario ma, invece, di capire come aggiustarle, come ripararle, se si vuole riprendere l’argomento di Kader Attia nel contesto della decolonizzazione. Spesso dimentichiamo che le cose devono essere mantenute e aggiustate. I riferimenti letterari abbondano nel mio lavoro: Dante, Borges, Joyce, solo per citarne alcuni. Questi operano in due modi, in primo luogo come prendendo in prestito la struttura letteraria come una vaso, e in secondo luogo come citazioni, un modo per premiare lo spettatore/lettore attento».
Arrivato alla quarta mostra per la Galleria Umberto Di Marino, ormai sei un veterano di Napoli, alla quale in passato hai anche dedicato un progetto, “Walter Benjamin In Naples”, considerandola emblematica di un certo “sud” del mondo. Ci puoi dare uno tuo rapido sguardo, giusto una impressione “climatica”, sulla situazione della città?
«Trovo che Napoli sia un luogo affascinante e ammiro la vitalità e il carattere della sua gente. Mi ritrovo a pensare a Napoli come in una dicotomia con il nord Europa, così come penso al Sud America in relazione al Nord America. Ho lavorato a un altro progetto su Napoli che esplora la coscienza collettiva della fatalità della morte, indagando come i napoletani abbiano incorporato la tragedia di Pompei nel loro immaginario quotidiano e cosa questo produce. Sarei curioso di vedere se questo processo potesse riguardare anche lo scenario post-pandemico».
Il display delle tue mostre è spesso scandito dalla combinazione di colori accesi e di elementi esuberanti nello spazio. Invece, in “A cloud-forest of paper and ink”, il paesaggio espositivo è giocato su un segmento orizzontale dello sguardo, tra il bianco e il nero. Puoi parlarci di questa scelta cromatica e formale, raccontandoci anche come sono nate queste serie di opere?
«Non ho riflettuto molto sulla distinzione tra colore e non colore, anche se capisco come possa dislocare le aspettative. Nella mostra ci sono due serie molto diverse; le fotografie della foresta e la serie di immagini accoppiate.
Le fotografie della foresta sono state tutte scattate in un unico luogo, nel corso di circa tre ore. Questa serie tenta di catturare un momento in cui la percezione è alterata dall’invasione della foresta da parte delle nuvole, ampliandone i confini. Lo scenario stesso era quasi monocromatico e tutti i colori erano tenui. Il testo che accompagna la serie è una voce nel diario di viaggio del “Paradise in the New World”, che specula sulle ramificazioni fenomenologiche di tale esperienza. Le immagini risultanti assomigliavano così tanto a dipinti a inchiostro nero che le ho stampate su carta ad acquerello.
La serie di immagini accoppiate, anch’essa parte di “Paradise in the New World”, è stata ripresa nel corso di diversi anni e implica un archivio fotografico come struttura organizzativa che posiziona ogni immagine in coppia con un’altra immagine e questa coppia in relazione con un’altra coppia e così via. La serie affronta, da prospettiva critica, numerosi temi ambientali, culturali, sociali, geografici, storici, che interessano l’area del Mato Grosso dove avrebbe dovuto trovarsi il Paradiso di Leon Pinelo. Ogni immagine del Paradiso nel Nuovo Mondo deve essere interpretata come una rappresentazione del Giardino dell’Eden».
Nelle opere in esposizione alla Galleria Di Marino, scorci naturalistici e ritagli antropici di crudo realismo sono posti in un dialogo serrato ma anche metafisico, come qualcosa di profondamente irrealizzato o in attesa. A parte l’aspetto poetico, sottotraccia è evidente il lavorio dei temi legati all’ambiente e al colonialismo, dalla lunga fine del modernismo alla perdita d’orientamento dell’Occidente. In che modo l’arte, oggi, può raccontare di questi argomenti così radicalizzati e confusi?
«Il fallimento del Modernismo sembra evidente ovunque. Nel cosiddetto mondo in via di sviluppo, il progetto modernista era uno strumento di colonizzazione che portava una promessa che non sarebbe mai stata mantenuta, accanto alle migliori intenzioni delle persone (come, ad esempio, nel caso degli architetti). D’altra parte, a causa dell’ubiquità delle informazioni attraverso la tecnologia digitale, le persone stanno ora sviluppando un senso di globalità che spesso rende l’aspetto delle nazioni-stato un anacronismo del passato. Il desiderio di accelerare verso un futuro migliore non è scomparso con il fallimento del Modernismo ma ha finito per non essere connesso a nulla che lo portasse avanti. Così, senza quel brillante futuro, i vecchi debiti accumulati dall’Occidente avevano cominciato a riaffiorare.
Che tipo di riparazioni si possono fare oltre alla restituzione di manufatti rubati? Le nazioni privilegiate possono davvero prendersi cura del benessere degli altri? In che modo? Come può la società andare avanti in un modo che non comporti forme di neocolonialismo e degrado ambientale? Le domande ci sono tutte, se ci sono delle risposte rimangono un work in progress».
Mi rendo conto che la domanda di prima era la classica da un milione di dollari. Rimanendo sulla leggerezza e ritornando in tema di riferimenti letterari (da comodino), puoi scegliere e riportare un passo scelto da un libro che stai leggendo?
«Il modo in cui si sono formati i dibattiti sull’identità deve essere rivisto. Gli Stati Uniti sono un buon esempio di questo fallimento. Lì, le discussioni basate sulla correttezza politica sono semplicemente afflitte dall’idiozia. Vedendo ciò che è stato dedotto dalle loro argomentazioni iniziali, i primi sostenitori del post-strutturalismo devono voltarsi sulle tombe. Dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto per smantellare l’essenzialismo, ecco che la politica identitaria viene reintegrata come una forma di autoaffermazione…Quindi, per rispondere alla tua domanda, mi diverto con Henry Miller, lo scrittore più politicamente scorretto che abbia mai incontrato. In “Tropico del Cancro”, Miller afferma di abbracciare la disumanità, di considerarsi orgogliosamente disumano di fronte al modo in cui l’umanità non è riuscita a resistere alla propria situazione. Probabilmente, in seguito, tornerò da Giovanni Papini…».
Sergio Vega, A cloud-forest of paper and ink: fotogallery della mostra alla Galleria Di Marino
Biografia di Sergio Vega
Nato in Argentina, nel 1959, Sergio Vega vive e lavora negli Stati Uniti. Oltre alla sua attività artistica, Vega è professore di fotografia e scultura all’Università della Florida a Gainesville. Tra il 1991 e il 1992, Vega ha partecipato al programma di studio indipendente del Whitney Museum of American Art e ha conseguito il MFA nel 1996 presso la Yale University.
Vega è particolarmente noto per il suo progetto “El Paraíso en el Nuevo Mundo”, al quale ha lavorato per più di dieci anni. Il titolo del lavoro si ispira all’omonimo libro del XVII secolo e, come l’autore dell’opera originale, Vega rintraccia il Giardino dell’Eden in una zona del Sud America. Tuttavia, a differenza della teoria originaria, Vega riflette sulla possibilità che tale giardino coincida con la regione del Mato Grosso, in Brasile.
Utilizzando varie media, tra cui testo, fotografia, video, scultura, diorami, modelli in miniatura e installazioni, le opere di Vega si confrontano con varie questioni sociali, fra cui le teorie colonialiste e lo sviluppo delle condizioni culturali e sociali.
L’artista ha partecipato a numerose mostre internazionali in spazi pubblici e privati, quali: Kiasma, Helsinki (2006, 2019); XIV Bienal de Cuenca – Ecuador (2018); Orlando Museum of Art, Florida (2016); Mana Contemporary, Jersey City (2015); Museu de Arte do Rio de Janeiro, Brasile (2014); Documenta 13, Kassel (2012); Ikon Gallery Eastside, Birmingham (2010); 3rd Moscow Biennale of Contemporary Art (2009); Fundação Calouste Gulbenkian, Lisbona; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2008); Sharjah Biennial 8, Sharjah Expo Center, United Arab Emirates (2007); Institute of Contemporary Art, Boston; ARS06; Palais de Tokyo, Parigi (2006); 51 Biennale di Venezia, Arsenale, Venezia (2005); Kabe Contemporary, Miami (2015, 2013); Galerie Karsten Greve, Paris and Colonia (2022, 2017, 2015, 2013, 2012, 2009).
Collabora attivamente con la Galleria Umberto Di Marino dal 2006, con la quale ha realizzato tre mostre personali – “Shamanic Modernism: Parrots, Bossanova and Architecture” (2016); “hashish in Naples” (2009); “Utopian paradises: modernism and the sublime” (2006) – e due mostre collettive, “Processo alla Natura”, allo Spazio Maria Calderara, Milano (2018) e “Why? Because life…” (2013).
Nel 2017 viene invitato con la galleria da Omar Lopez-Chahoud a realizzare “Shanty: on the mimetic faculty II” per la sezione progetti speciali di Untitled Art, Miami Beach, USA.