Tralasciando le grandi mostre nei musei più celebri della Grande Mela (Donald Judd al MoMA, Rem Koolhaas al Guggenheim, o Gerhard Richter al Met Breuer) è interessante tuffarsi nell’offerta delle gallerie di Chelsea (certo, anche loro tra le più blasonate del mondo) per una riflettere sul fatto che “genere” e “medium” trovano anche in questo caso una forma più o meno compatta su ogni fronte. Che cosa significa? Semplice: che le storie afroamericane e la pittura come mezzo del contemporaneo sono i cavalli di battaglia che si trovano in questa Armory Week 2020, almeno fuori dalla fiera.
Iniziamo la nostra ricognizione da Perrotin, dalla sua sede di Orchard Street, nel Lower East Side. Qui, su due piani della galleria, è in mostra Cinga Samson, nata a Città del Capo nel 1986. Il solo show si intitola “Men are different, though they look alike” ed è una riflessione che parte dalla storia dell’apartheid e della successiva decolonizzazione del Sudafrica. In grandi dipinti dai toni blu scuro, si racconta il cambio di prospettiva vissuto dalla popolazione di colore, un tempo al di fuori della società e oggi invece omologata in jeans strappati e trendy, che indossano uomini a torso nudo, mentre le donne sono fasciate in corpetti sexy in posa sopra giacche maculate; uomini reggono in mano frutta tropicale con le istruzioni per l’uso del loro consumo; donne portano al collo tipiche collane d’Africa e a tracolla hanno borse Dior, Lacoste, Polo. Tutti questi umani però hanno lo sguardo vitreo, completamente bianco. Si tratta di scelte, anche di esclusione. E ad essere esclusi, secondo la volontà dell’artista, sono gli osservatori, estranei a queste scene di appartenenza dipinte appositamente per i soggetti rappresentati. Il post-capitalismo e la sua forma.
Ja’Tovia Gary (nata nel 1984 in Texas) è invece alla sua prima personale da Paula Cooper. Il titolo della mostra è “Flesh that needs to be loved” ed è una presa di posizione intorno ai temi della sicurezza e dell’autonomia delle donne di colore. Fanno parte del progetto (due grandi video-installazioni) una serie di interviste che l’artista ha realizzato ad Harlem, dove chiede a una schiera di donne diverse per età e nazionalità quanto si sentano sicure. Un altro capitolo contemporaneo, decisamente americano, che tira in ballo anche filmati che vedono protagoniste Nina Simone e Josephine Baker, per esempio, e la violenza all’interno delle mura domestiche mixata con il concetto di “casa” come luogo sicuro, appunto. Una mostra decisamente ben architettata e sulla quale riflettere, che cambia un poco il passo rispetto all’offerta di Chelsea.
Perché a farla da padrone, nemmeno a dirlo, è la pittura. Tra innumerevoli prove, a volte ben riuscite a volte meno, da citare senza dubbio “Where they are”, di Becky Suss (1980) alla Jack Shainman Gallery, dove l’artista ricrea su tela una serie di interni “piatti” ripresi dai più celebri romanzi per l’infanzia che – anche in questo caso – esplorano l’idea di domestico, di memoria e interiorità . Sono pitture che, nel loro essere sprovviste di prospettiva, inchiodano lo sguardo ai dettagli, a raffinatissimi particolari, a interni senza figure umane ma densissimi presenze.
Michael Williams (1978) è invece è da Gladstone con “Opening”. L’artista, con una serie di grandi dipinti realizzati completamente con le palette di photoshop e successivamente stampati su tela, riflette sulle possibilità e le complicazioni di una pittura realizzata nell’era digitale. E se qualcuno potrebbe dire che già ci aveva pensato David Hockney con il suo Ipad, possiamo affermare con certezza che i risultati di Williams non siano meno originali, anzi.
Da Matthew Marks invece la riscoperta di Glady Nilsson con “Honk! Fifty years of painting”: pittore assolutamente fuori da ogni schema e corrente (nato nel 1940 negli Stati Uniti), nei ’60 della Minimal e della Pop dipingeva al contrario, su plexiglass per esempio, una serie di magiche figure umane al volante di stranianti astronavi, in scenari futuristici e fumettistici, con una tecnica strabiliante. Qui, in collaborazione con la galleria Garth Greenan, sono esposti 33 bellissimi pezzi, tra pitture e disegni, datati tra il 1963 e il 1980.
Due splendide mostre di scultura invece da PACE, e da Paul Kasmin. Da PACE troviamo gli assemblaggi di Arlene Shechet (in mostra anche al Whitney Museum) in una esposizione intitolata “Skirts” che cattura e non poco: pezzi preziosi, dai titoli assurdi, che fondono insieme ceramica e legno, metallo e pittura: un approccio “espansivo” – si legge – che richiama le pratiche di Sophie Taeuber-Arp e di Sonia Delaunay. Da vedere. E da vedere è anche la splendida serie di sculture “ancora non intitolate” (si intitolano proprio così) di Alma Allen, artista in mostra nel bello spazio cubico di Paul Kasmin sulla 27th strada. Nato nel 1970, Allen mette in scena volumi di bronzo, pietra, legno, donando loro identità curiose che ci fanno davvero riflettere su una strana natura che sembra essersi semplicemente impossessata dell’oggetto per modellarlo: forme amorfe, a-storiche, e per questo ancora più affascinanti e più contemporanee di qualsiasi scultura.
Infine una perla rara, di nuovo da PACE ma nella sede al civico 510 della 25th St. Qui c’è “The Season”, incantevole lavoro fotografico di Paul Graham che racconta il tempo della crisi davanti ai maggiori istituti di credito di NYC (e dunque degli Stati Uniti e del mondo) usando come pretesto l’omonimo ciclo di Pieter Bruegel. A dir poco incantevoli, queste foto su larga scala sono state realizzate con un tempo di esposizione di un millesimo di secondo, fissando un’umanità cristallizzata. E persa. Per una mostra da non perdere.
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