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New York in perimetro, ma non marginale. Intervista a Antonio Rovaldi
Arte contemporanea
di Paola Tognon
La mostra di Antonio Rovaldi (Parma, 1975) Il suono del becco del picchio / The Sound of the Woodpecker Bill ospitata per la GAMeC nella Sala della Barchessa all’Accademia Carrara prosegue, con un’apertura straordinaria, sino al 26 Luglio 2020. La possibilità di visitare la mostra e tenere fra le mani il suo libro, non corredo ma oggetto e contenuto di espansione, è l’opportunità di partecipare ad un racconto per immagini, più che mai attuale per le sue caratteristiche e indagini, dalla comune esperienza del lockdown.
Puoi parlarci del progetto Il suono del becco del picchio e del suo sviluppo?
«L’origine del progetto (che all’inizio aveva un altro titolo) e i primi passi intorno ai margini delle cinque circoscrizioni di New York City – Manhattan, Brooklyn, Queens, The Bronx, Staten Island – risalgano alla primavera del 2016, periodo in cui vivevo fisso a NYC. Il premio dell’Italian Council e la vincita della V edizione è avvenuta dopo, all’inizio del 2018. Il premio ha permesso a me, insieme alla GAMeC di Bergamo in partnership con Magazzino Italian Art (Cold Spring, NYC) e il Kunst Museum St. Gallen in Svizzera, di sviluppare l’intero progetto territoriale che in seguito ha preso forma in un complesso libro fotografico e poi in due mostre – prima al GSD di Harvard (Boston, Novembre 2019) e ora alla Sala della Barchessa all’Accademia Carrara (Bergamo, febbraio/luglio 2020). L’intero progetto ha un carattere multidisciplinare e biografico al tempo stesso e ha visto la collaborazione di un gruppo eterogeneo di autori: scrittori, artisti, una paesaggista, un botanico… Il suono del becco del picchio è anche, e soprattutto, un racconto per immagini che dialoga con me stesso e la mia pratica artistica che intreccia sempre la relazione tra immagine fotografica, una distanza attraversata e lo sforzo fisico consumato. In questo caso si è trattato di camminare una città ripercorrendo i suoi confini, geografici e mentali, per raccontare aree della metropoli meno battute e spesso non di facile accesso: il suo waterfront».
Ci sono altri sviluppi o tappe del progetto?
«Insieme al botanico newyorkese Steven Handel, Francesca Benedetto e Lorenzo Giusti – che sono stati anche i curatori delle due tappe espositive – ci piacerebbe portare la mostra in altre sedi, ci stiamo riflettendo, ma ora tutto si complica per via delle urgenze e incertezze del presente. A me piacerebbe una mostra a New York City e poi a Milano, che sono le due città dove negli ultimi quindici il mio lavoro si è formato, dove ho vissuto, ho avuto casa e studio. Per me la relazione tra le geografie dei miei progetti e quella dove si trova la mia casa/studio è molto importante perché́ si tratta sempre, a un certo punto, di fare ritorno nei luoghi delle proprie origini e anche di fare pace con qualcosa di cui non conosco esattamente l’origine e che mi spinge sempre a ripartire… Anatomia dell’irrequietezza direbbe Bruce Chatwin! Ora, più̀ che una mostra di immagini, penso a un percorso sonoro dedicato alla città. Durante le miei numerose camminate ho creato infatti un archivio di suoni davvero vastissimo raccolti nell’installazione Five Walks. New York City, in mostra sempre alla Sala della Barchessa».
La pubblicazione The Sound of the Woodpecker Bill: New York City, edita da Humbold Books è il fulcro del progetto. Un libro/oggetto di grande qualità̀ per le sue relazioni tra pensieri e immagini, intenzionalità̀ e visioni, testi e mappe. Si tratta di un lavoro collaborativo che ci racconta una New York diversa, da te camminata, osservata e accarezzata nelle pieghe dei suoi cinque boroughs. Come si è sviluppata l’idea di questo libro?
«Il libro è sicuramente il centro intorno al quale si sviluppa l’intero progetto. Per me non è semplicemente una raccolta di immagini, più̀ o meno riuscite, ma è un luogo fisico, attraversabile, con un tempo e peso specifico. Le pagine che costruiscono e modulano il tempo all’interno sono tante e sottilissime, una stratificazione di sguardi reiterati nel tempo, negli anni, nei mesi, nei giorni, nelle ore delle mie camminate che a fine giornata avevano sempre un ritorno a casa prima che il giorno si facesse notte. New York City è una città geologica e questa caratteristica, seppur non sempre riconoscibile, è parte costitutiva di quel territorio specifico. Questa cosa del tempo geologico è un aspetto che ho voluto restituire nel libro, an- che nella relazione che esiste tra immagine fotografica e i disegni delle mappe della paesaggista Francesca Benedetto. Con Francesca abbiamo riflettuto a lungo su come creare una relazione for- te tra le diverse grafie del libro: quella fotografica e quella illustrativa. Entrambe si intrecciano con estrema efficacia espressiva senza prevalere l’una sull’altra. Non è stato facile creare questo equilibrio nel libro, ma secondo me è uno degli aspetti più̀ riusciti. Le pagine e le mappe di Francesca ripercorrono il ritmo delle mie camminate, giorno dopo giorno. Per me è sempre una questione di ritmo, infatti come fotografo lavoro sempre per lunghe sequenze e quasi mai con immagini singole. Mi piace l’idea che un altro autore possa ripercorre con il suo tempo una mia distanza percorsa precedentemente. Del resto, il nostro sguardo, esiste e si sviluppa sempre attraverso lo guardo degli altri».
Libro e mostra hanno l’esclusiva del bianco e nero…
«Ho scelto di fotografare in analogico e medio formato perché́ cercavo una relazione forte e chiara con la scrittura, che resta nel mio lavoro una pratica quotidiana. Volevo tornare alle origini della fotografia e di alcuni autori che amo particolarmente (soprattutto l’opera immensa di Robert Adams) e fare un passo indietro nel tempo e immaginarmi una città che lentamente si svuota e torna il suono della natura. Il bianco e nero mi ha aiutato a fare questa sottrazione e a procedere per strati, velature di grigi. New York City, nelle sue zone di confine, è spesso una città caratterizzata da una tavolozza di grigi. L’oceano stesso è di un grigio scuro che si dissolve lungo le sue spiagge. Se dovessi ricominciare il mio viaggio intorno alla città nuovamente, forse fotograferei a colori. Non so. La questione del bianco e nero e del colore in fotografia credo segua processi mentali non sempre spiegabili a parole. Un po’ come con la pittura credo, il pittore non sa sempre il perché́ della scelta di un colore piuttosto che un altro. A volte sento con i colori, altre volte vedo meglio le tonalità̀ infinite della natura nella gamma dei grigi, dei neri e dei bianchi. Dipende anche molto dal soggetto che si vuole raccontare e da tutta una serie di considerazioni che sempre si riflettono con la nostra biografia in un dialogo serratissimo con il contesto attraversato».
Hai viaggiato dentro una New York “alternativa” al senso comune. Hai ripensato o immaginato quei luoghi in questi mesi di pandemia?
«La mia New York non è una New York “alternativa”, tutt’altro. È una città molto presente e per nulla marginale. I margini non sono la fine ma l’inizio di un luogo. La fine è il luogo dove tutto ricomincia. Quando si arriva alla fine di un libro, all’ultima pagina, in realtà̀ ci si avvicina all’inizio di una nuova riflessione che prima non esisteva. L’immagine complessiva del mio libro è un’immagine che si è sovrapposta a quella della pandemia di questi ultimi mesi. Quando ho cominciato questo progetto immaginavo di percorrere una città svuotata dai suoi abitanti, in procinto di un imminente collasso o calamità. Questo è quello che è successo due mesi dopo dalla pubblicazione del libro del picchio. Tutto molto prevedibile rispetto alla direzione che sta prendendo la razza umana sul nostro pianeta. Nessuna visione apocalittica, solo la realtà̀ tangibile delle cose. Alla fine la natura si riprenderà̀ nuovamente lo spazio che le è stato tolto e forse noi scompariremo. Del resto, la natura, di noi non ha certo bisogno, soprattutto se ci neghiamo a un dialogo con lei. L’ignoranza di molti esseri umani a tratti è davvero molto deprimente».