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Non dobbiamo guarire da nulla. Tutti fluiamo continuamente: La Chola Poblete si racconta in questa intervista
Arte contemporanea
Dopo aver vinto nel 2023 il premio internazionale Artist of the Year di Deutsche Bank, dedicato all’arte contemporanea, e dopo la partecipazione alla 60a edizione della Biennale arte di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, nella quale è stata premiata con una menzione speciale, La Chola Poblete porta al MUDEC di Milano le sue radici queer, indigene e identitarie nella mostra Guaymallén. In questa intervista racconta il suo mondo e cosa per lei voglia dire plasmare corpi per l’arte.
È una tua opera del 2013, “La nascita di Chola”, in cui sei raffigurata come la Venere di Botticelli. Se la Venere nasce dalla spuma del mare e dalla spinta di Zefiro, La Chola da dove nasce?
«La Chola nasce da un “guiso de papas”, un piatto di patate. L’immagine di cui parli è quella in cui per la prima volta mi sono vista come La Chola. Mi sono immaginata come una donna e ho detto: “Voglio fare una foto come se stessi nascendo”. Se la Venere nasce dalla spuma del mare, io mi sono chiesta: “Da dove posso nascere?”. Così ho deciso che sono nata dalla cottura delle patate: quella è stata, praticamente, la mia nascita».
Perché una cottura di patate?
«La patata è un elemento importante per me perché ha molte connotazioni. In spagnolo “patata” e “papà” si pronunciano allo stesso modo, e spesso parlo di mio padre, dell’abbandono e di questo senso di angoscia e vuoto. Ho conosciuto mio padre quando avevo ventuno anni, quindi per me la patata ha anche un significato personale. Inoltre, è legata alla storia della colonizzazione: gli spagnoli la scoprirono in America e la associarono al “frutto dell’inferno” perché cresceva sottoterra. Poi, però, la patata è diventata un alimento fondamentale, salvando dalla fame durante le guerre europee e oggi è diventato un piatto nazionale in Spagna. Perciò, gioca su più livelli: storia collettiva e storia personale».
La mostra Guaymallén racconta di te, delle tue radici e della tua identità. Cos’è per te Guaymallén?
«Guaymallén è il luogo dove mi sono progettata come artista. È il posto dove ho vissuto le fasi migliori della mia vita, come l’adolescenza con gli amici. Ho scoperto il rock nazionale, che uso molto nelle mie opere, ma Guaymallén è anche un luogo mitico. Nella provincia di Mendoza hanno abitato i Huarpes, gli Inca e altre popolazioni indigene. Ci sono le Ande, con i condor che le sorvolano. È un posto con una mistica davvero unica».
La tua arte incorpora simboli indigeni, queer, coloniali e religiosi. Che ruolo ha per te il simbolismo in questa sovrapposizione di mondi?
«Crescere in America Latina significa percepire un sincretismo enorme. C’è un’architettura europea che si mescola a quella popolare e locale. Io gioco con i simboli storici e artistici, con i mitogrammi che appaiono nel vasellame e nei tessuti precolombiani, e con i loghi dei gruppi rock. È un modo di raccontare una storia attraverso un’immagine, utilizzando una semplificazione di tanti significati».
Nelle tue opere usi materiali, come il pane, per modellare corpi. Perché proprio il pane?
«Il pane mi ricorda la storia del golem, questa creatura fatta di fango. Ho iniziato a usare la pasta di pane quando ho smesso di voler lavorare con il mio corpo. Pensavo di dover smettere di teorizzare il corpo attraverso la performance e così ho scelto il pane perché, una volta modellato e cotto, cambia e si degrada. È un materiale mutante e mi interessa molto il suo processo di trasformazione. Credo di aver trovato un altro modo per parlare della performance attraverso un materiale organico, e così ho cominciato con alcune opere di pane, che erano delle maschere».
Perché le maschere?
«Le maschere mi permettono di esprimere l’idea che dietro di esse possano esistere infinite identità. Ogni maschera rappresenta una possibilità, un’identità nascosta e riflettono la complessità e la fluidità dell’essere».
Il pane è anche una caratteristica transitoria, spirituale in un certo senso. Che connessione c’è tra il pane e il tema dell’identità nelle tue opere?
«Mi affascina creare corpi col pane, osservare come si trasformano, degradano e “muoiono”. Il pane, con la sua trasformazione e pensando all’identità trans, mi permette di esplorare questo concetto e mi ha fatto riflettere sul fatto che l’unico momento in cui realmente avviene una transizione è quando si muore».
Spesso nelle tue opere troviamo elementi commestibili come patate, latte, aglio e carne macellata. Che rapporto c’è tra la matericità delle opere e il nutrimento?
«Mi interessa lavorare con materiali che siano indipendenti, che possano “transitare” indipendentemente da me, che essi stessi possano prendere la loro strada e mutare liberamente».
Secondo te, come questi elementi commestibili influenzano il modo in cui il pubblico percepisce le opere? Cosa cambia nel pubblico quando usi questi elementi, come il cibo?
«Forse dipende dal luogo. Ad esempio, a Berlino mi hanno chiesto spesso perché utilizzassi il cibo, probabilmente per via della grande consapevolezza legata al tema del biodegradabile e al suo uso. In quel caso abbiamo dovuto persino utilizzare delle patatine speciali. A Berlino il cibo ha sollevato molte domande, mentre in altri luoghi non è stato lo stesso. In Argentina, ad esempio, stiamo attraversando un periodo politico difficile, con molta repressione e un presidente neoliberista. In un contesto del genere, l’uso del cibo potrebbe non essere ben visto, perché richiama sia l’idea dell’abbondanza che quella della scarsità, toccando temi sensibili legati alla situazione economica e sociale».
In che modo la tua identità queer, le tue radici indigene, il tuo attivismo e il rapporto con l’arte si influenzano e si stratificano? Che messaggi desideri trasmettere?
«Penso che sia importante smettere di usare le etichette. Non importa se si è lesbiche, gay o trans. Spesso, dopo il coming out, si passa solo da un’etichetta all’altra. Le persone devono innamorarsi delle persone, punto. Per questo motivo metto spesso il mio corpo al centro delle mie opere. Per esempio, incarnando una lupa, un pezzo di carne, o anche degradando come fanno i corpi di pane».
Nella complessità e ricchezza di significati delle tue opere c’è sempre una vena di ironia e umorismo. Che ruolo hanno per te questi due aspetti?
«Credo che sia la migliore forma per potermi camuffare all’interno del sistema del mercato, delle istituzioni, e per poter dire cose che non si vogliono realmente ascoltare. Per questo motivo c’è anche molto camouflage nella mia opera».
In passato hai detto: “I don’t believe in healing” (non credo nella guarigione). Cos’è per te la guarigione?
«Sono stata molto vicina all’esperienza della guarigione. Quando ho fatto coming out sono andata direttamente in una chiesa cattolica perché volevo parlare col sacerdote. Quando gli dissi che mi piacevano gli uomini la sua risposta fu che dovevo andare a dire tre Ave Maria e cinque Pater Noster, e che dopo sarei guarita. Ma quando sono salita su un autobus, mi sono accorta che ancora mi piacevano gli uomini e quindi che non ero guarita. Poi sono andata dagli evangelici, una follia assoluta. Le migliori performance della mia vita le ho viste lì. In seguito sono finita con i mormoni, e per questo motivo nelle mie opere vengono mostrati. Perché in qualche modo sono arrivati con questa idea del poter guarire. Tuttavia, non esiste questa cosa. Perché in realtà non bisogna guarire da nulla. In realtà tutti fluiamo continuamente. Questa è una cosa che ho imparato io, devo fluire».
Nelle tue opere c’è anche la figura della Vergine, un soggetto che viene tradotto in diversi modi, in diversi paesaggi. Per te è una figura ancora contemporanea?
«Assolutamente sì. La vergine Maria può avere così tante versioni di sé, può essere una madre, una puttana, una donna e tutto ciò che vuole. È l’unica donna che può essere chi vuole essere. Per me è molto contemporanea. Inoltre, ha anche qualcosa del travestitismo, con la parrucca, gli abiti e le sue molteplici immagini. È la miglior drag queen della storia».
Come immagini l’evoluzione di Guaymallén? Affronterai e racconterai altre storie e binarismi che non hai ancora raccontato?
«In realtà non so, perché io lavoro molto con quello che mi succede nella mia vita quotidiana. Io cerco di parlare sempre di cose che mi danno fastidio, e adesso non so che cosa in futuro mi darà fastidio. Adesso quello che mi sto domandando è che tipo di donna voglio essere».
La Chola che donna vuole essere?
«Io direi con empowerment, però forse sembra un cliché, insomma, un luogo comune. Mi piacerebbe essere un po’ più anonima, forse. Smettere di essere così presente nella mia opera e potermi sfilare via. Sento che mi sono denudata molto. Forse sono alla ricerca di un momento di pace, di costruzione, per essere più introspettiva e anonima. Come quando Bjork, in un suo momento, si è arrabbiata con tutti, è andata su una montagna e basta».
Quindi ti dovremmo andare a cercare su una montagna?
«Sì, a Mendoza, sicuramente sulle Ande».